Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896 – 1957), scrittore italiano.
Citazioni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
[modifica]- [Su Gioacchino Lanza Tomasi] È sarcastico, è indolente, ha un'accesa curiosità per le cose intellettuali, è pieno di spirito, ha una grande cattiveria superficiale e una certa bontà fondamentale. Inoltre più di me, si vede da un miglio di distanza che è un "signore". Insomma, mia moglie ed io ne siamo pazzi.[1]
- [Su Louise Labé] [...] elegante (quasi più delle dame parigine, ricordatelo), coltissima e spregiudicata.[2]
- Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone. (da I racconti, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Feltrinelli)
- Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico. (da Letteratura inglese, Mondadori)
- Ci rimane adesso di parlare di Emily, l'ardente, la geniale, l'indimenticabile, l'immortale Emily. Essa non scrisse che pochi versi, brevi liriche aspre, ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo. Wuthering Heights, un romanzo come non ne sono mai stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrate con un stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi si consente il bisticcio, ha qui raggiunto il proprio zenith. (da Letteratura inglese)
- Mentre di Voltaire e di Diderot sopravvive, presso i comuni lettori, una specie di antologia dei loro lavori più personalmente incisivi, di Montesquieu l'opera intera galleggia ancora sui marosi dei tempi. (da Opere, a cura di Nicoletta Polo, Mondadori, 20045)
- Raccontami della nostra isola; è una bella terra benché popolata da somari. Gli Dei vi hanno soggiornato, forse negli agosti inesauribili vi soggiornano ancora. Così parlammo della Sicilia eterna, di quelle cose di natura. Parlammo dell'incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso tra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all'erta, teme l'avvicinarsi dei demoni. (da La Sirena, in I Racconti, Feltrinelli, 2004)
Il Gattopardo
[modifica]"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen."
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Citazioni
[modifica]- Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni di idee. "Adesso qui c'è buon odore, ma un mese fa..." Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del quinto Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli, se ne era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. [...] Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sí, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo), un De Profundis per l'anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne essendosi rivelata soddisfatta. [...] L'immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi, come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Ed altri spettacoli gli stavano intorno, ancor meno attraenti di esso. Perché morire per qualcheduno o per qualche cosa, va bene, è nell'ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia. (p. 24)
- Il ragazzo era diventato serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. "Parto, zione, parto fra un'ora. Sono venuto a dirti addio." Il povero Salina si sentí stringere il cuore. "Un duello?" "Un grande duello, zio. Un duello con Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Ficuzza; non lo dire a nessuno, sopratutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zio, ed io non voglio restare a casa. Dove del resto mi acchiapperebbero subito, se vi restassi." Il Principe ebbe una delle sue solite visioni improvvise: una scena crudele di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. "Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente. Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per il Re." Gli occhi ripresero a sorridere. "Per il Re, certo, ma per quale Re?" Il ragazzo ebbe una delle sue accessi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. "Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?" Abbracciò lo zio un po' commosso. "Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore." La retorica degli amici aveva stinto un po' anche su suo nipote; eppure no, nella voce nasale vi era un accento che smentiva l'enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. (pp. 41-42)
- Aprí una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all'ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa. Il sole, che tuttavia era ben lontano dalla massima sua foga in quella mattina del 13 maggio, si rivelava come l'autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all'arbitrarietà dei sogni. «Ce ne vorranno di Vittorî Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata!». (p. 53)
- Nelle persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di essere divertiti costituisce i quattro quinti dell'affetto. (p. 89)
- L'amore. Certo, l'amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui cos'era l'amore... (p. 90)
- "Finché c'è morte c'è speranza," pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. (p. 91)
- Nel termine "campagna" è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro; la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell'identico stato di intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcavano in Sicilia, quest'America dell'antichità. (p. 125)
- Prima della votazione molte persone erano venute da lui a chiedere consiglio: tutte, sinceramente, erano state esortate a votare in modo affermativo. [...] Altri, invece, dopo averlo ascoltato, si allontanavano contristati, convinti che lui fosse un transfuga o un mentecatto e piú che mai decisi a non dargli retta e ad obbedire invece al proverbio millenario che esorta a preferire un male già noto ad un bene non sperimentato. (pp. 129-130)
- "In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso." (pp. 209-210)
- "Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i piú bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto." (pp. 210-211)
- Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.[3] (p.213)
- "Appartengo a una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri?" (p. 213)
- "Cosí rispondo anche a lei, caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi." (p. 217)
- "Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra." (p. 219)
- Essi offrivano lo spettacolo patetico più di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l'uno né l'altro erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi, mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire. (p. 265)
- Don Fabrizio sentí spetrarsi il suo cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione per tutti questi effimeri esseri che cercavano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre, prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? [...] Non era lecito odiare altro che l'eternità. (pp. 265-266)
- Don Fabrizio si guardò nello specchio dell'armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani? (parte VI; 2002, p. 239)
- Il suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio, si fece acuto quando la porta si aprì: preceduto dal direttore dell'albergo, svizzerotto irritatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre Balsàmo, il parroco, entro recando sotto la písside il Santissimo custodito dall'astuccio di pelle. (p. 293)
- Nella strada di sotto, fra l'albergo e il mare, un organetto si fermò, e suonava nell'avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c'erano. Macinava Tu che a Dio spiegasti l'ale. Quel che rimaneva di don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie, in Italia, da queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone, buttò giù una moneta, fece segno di tacere. Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro si ingigantì. (p. 295)
Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l'immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell'aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.
Citazioni su Il Gattopardo
[modifica]- È un romanzo sopravvalutato. Tomasi di Lampedusa è bloccato in un'idea astorica della Sicilia, crede di fare la storia invece fa il pianto su quel che una certa parte della nobiltà è stata per la Sicilia. (Andrea Camilleri)
- Nel Gattopardo, l'ascesa dei parvenu incide sull'equilibrio fra etica ed estetica sul quale è fondata la civiltà delle buone maniere. Non è in questione solamente un frac malmesso. Cambia il vocabolario della civiltà. Nel senso che le stesse parole acquistano significati diversi se non opposti. La parola "pudicizia" era legata, nel mondo aristocratico, all'idea di "sprezzatura": all'arte del "nascondere". Il rococò delle case patrizie prediligeva, tra rosati "nodi di fiori", modanature e decori color oro che però andavano castigati: "Non era la doratura sfacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunto, pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il loro costo". (Salvatore Silvano Nigro)
- Telefonai subito a Palermo. Seppi cosí che autore del romanzo era Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa: sí, proprio il cugino del poeta Lucio Piccolo di Capo d'Orlando – mi fu confermato. Il quale principe, purtroppo, ammalatosi gravemente un anno avanti, nella primavera del '57, era morto a Roma, dove era andato per un estremo tentativo di cura, il luglio dello stesso anno. [...] Si legga dunque da capo a fondo il romanzo, con l'abbandono che pretende per sé la vera poesia. Frattanto, dal canto suo, il piú vasto pubblico dei lettori avrà avuto il tempo di innamorarsi ingenuamente, proprio come usava una volta, di quei personaggi della favola dentro i quali l'autore, anch'egli come usavano una volta i poeti, se ne sta chiuso chiuso. Del principe don Fabrizio Salina, voglio dire, di Tancredi Falconeri, di Angelica Sèdara, di Concetta, e di tutti gli altri: il povero cane Bendicò compreso. (Giorgio Bassani)
La sirena
[modifica]Citazioni
[modifica]- Il mio sicilianissimo amor proprio era umiliato: ero stato fatto fesso; e decisi di abbandonare per qualche tempo il mondo e le sue pompe.
- Se la Sicilia è ancora come ai tempi miei, immagino che non vi succede mai niente di buono, come da tremila anni.
- Confessai che ero proprio un Corbèra di Salina, anzi il solo esemplare superstite di questa famiglia: tutti i fasti, tutti i peccati, tutti i canoni inesatti, tutti i pesi non pagati, tutte le Gattoparderie insomma erano concentrate in me solo. Paradossalmente il senatore sembrò contento.
- Pensa a sposarti presto, Corbèra, dato che voialtri non avete trovato nulla di meglio, per sopravvivere, che il disperdere la vostra semente nei posti più strani.
- Raccontami della nostra isola; è una bella terra benché popolata da somari.
- Gli Dei vi hanno soggiornato, forse negli Agosti inesauribili vi soggiornano ancora. Non parlarmi però di quei quattro templi recentissimi che avete, tanto non ne capisci niente, ne sono sicuro.
- Il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città, s'intende. Nelle trattorie a mare si servono ancora i 'rizzi' spinosi spaccati a metà?" Lo rassicurai aggiungendo però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo.
- E squallide anche: bella eleganza, quella loro, fatta di cianfrusaglie, di 'pullover' rubati e di moinette apprese al cinema. Bella generosità quella loro di andare a pesca di bigliettucci di banca untuosi nelle tasche dell'amante invece di regalare a lui, come altre fanno, perle rosate e rami di corallo. Ecco che cosa succede quando ci si mette con questi sgorbietti truccati.
- Lui divorava gli abominevoli "lukum". "I dolci, Corbèra, debbono essere dolci e basta. Se hanno anche un altro sapore sono come dei baci perversi."
- Come Odisseo mi turerò le orecchie per non sentire le fandonie di quei minorati.
- Si vedeva che era uno di quei siciliani per i quali la Riviera Ligure, regione tropicale per i milanesi, è invece una specie d'Islanda.
- Sai, io, in fondo, ti voglio bene: la tua ingenuità mi commuove, le tue scoperte macchinazioni vitali mi divertono; e poi mi sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione.
- «Sei stato mai ad Augusta, tu, Corbera?». Vi ero stato tre mesi da recluta; durante le ore di libera uscita in due o tre si prendeva una barca e si andava in giro nelle acque trasparenti dei golfi. Dopo la mia risposta tacque; poi, con voce irritata: «E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline, voi cappelloni siete mai andati?» «Certo; è il più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi. La costa è selvaggia, è vero, senatore? Completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l'Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno di quei luoghi nei quali si vede un aspetto eterno di quell'isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole.»
Citazioni su Giuseppe Tomasi di Lampedusa
[modifica]- C'era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d'Irlanda che fui io il primo a leggerlo prima ancora di Lampedusa […] E così ci siamo accaparrati tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca, francese. Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke [...] Poi passarono Joyce, Proust. Di Proust mi ricordo che una volta mi disse «Sai, c'è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine». La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa. (Lucio Piccolo)
- Mi dispiace che Lampedusa sia ricordato soprattutto per la famosa frase secondo cui se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Abitavo in via Mariano Stabile e andavo spesso al bar Mazzara. Lo ricordo in un angolo, intento a scrivere. Era molto gentile, attento, non molto loquace. Ma la conversazione letteraria lo prendeva. Certo, la frase del Principe Salina è emblematica, ma non la amo. È una condanna. Penso invece che bisogna rimboccarsi le maniche, partire dalle piccole cose, fare il proprio dovere. (Dacia Maraini)
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, prefazione di Giorgio Bassani, Feltrinelli, Milano, 1958.
- Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Feltrinelli, Milano, 2002.
- Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena (1958), Feltrinelli, 2014. ISBN 9788858852217
Film
[modifica]- Il Gattopardo (1963)
Voci correlate
[modifica]- Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo
Altri progetti
[modifica]- Wikipedia contiene una voce riguardante Giuseppe Tomasi di Lampedusa
- Commons contiene immagini o altri file su Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Opere
[modifica]- Il Gattopardo (1958)