Memorie di un pulcino (1902)/VIII
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VIII.
Muto padroni.
Quei signori si trattennero qualche settimana, e se in casa ci fu baldoria, lascio immaginarlo a’ miei lettori. È vero che essi abitavano un villino annesso all’abitazione de’ contadini, ma essendo tanto affabili e buoni, non stavano punto sull’etichetta, e spesso spesso si riunivano tutti insieme, quando a fare una bella merenda, quando a cenare allegramente. Seppi che Albertino, per ordine de’ suoi genitori, aveva regalato alla Marietta un bel vestitino di mussolina in lana e uno scialletto veramente grazioso. Quei doni però furono la mia disgrazia; state a sentire il perchè.
Alcuni giorni avanti la partenza, i due fanciulli stavano passeggiando con la massaia per la viottola del podere, e la Marietta diceva al signorino:
― Alberto mio, lei si è incomodato troppo, non so davvero come contraccambiare le sue garbatezze. Almeno avessi qualcosa che potesse piacerle! Glie l’offrirei tanto volentieri!
― Davvero, soggiungeva la Tonia mi sa proprio male d’esser così poverella e di non trovarmi perciò nella possibilità di farle un regalino adattato alla sua condizione. ―
Alberto stette due minuti zitto; e poi sorridendo e dandomi un’occhiata, della quale non penai di molto a raccapezzare il significato, disse con una vocina tutta miele:
― Eh per quello, siete più ricche di quel che credete, la Marietta specialmente! Ha un tesoro che le invidio, ma che peraltro non avrei mai cuore di chiederle...
― Signorino mio, ― rispose cortesemente la massaia ― ciò che appartiene alla mia bambina è suo...
― Sicuramente; ― soggiunse la Maria ― vorrei vedere anche questa, che il signor Albertino facesse i complimenti con noi! Si spicci, via, a dirmi il nome di questo famoso tesoro.
― Indovina...
― Non saprei... forse la cestina di margherite che tengo sul cassettone?
― No.
― Il canarino impagliato?
― No.
― La carrozzina a quattro ruote che mi regalò lo zio Giampaolo per il Corpus Domini?
― Neppure.
― O dunque? Non mi tenga più in curiosità, sor Albertino, me lo dica.
― Ebbene, giacchè vuoi assolutamente così, sarò franco. Quel che desidererei sarebbe... il pulcino... quello tuo, che hai allevato così bene... ―
Successe un minuto di silenzio. La Tonia dette un’occhiata espressiva alla figliuola che, poverina, s’era fatta in viso come un panno lavato; ma nonostante, si diè coraggio e rispose con bel garbo al signorino:
― O che ci voleva tanto a dirmelo subito, sor Alberto? Sicuro; non ha sbagliato, supponendo che il pulcino mi fosse caro oltremodo; si figuri, l’ho tenuto sempre io, e me lo son tirato su, proprio a minuzzoli di pane; ma questo non vuol dire; anzi, sono contenta di privarmene per amor suo.
― Povera Maria, io però non devo permetterlo...
― Perchè mai, benedetto lei? Scusi, o che alle persone a cui si vuol bene si danno solamente le cose che non ci piacciono? Non ci sarebbe male! Già son persuasa che il pulcino non farà che guadagnarci in questo cambio; dalla nostra casa alla sua ci corre! Eppoi lei è così bonino, così amoroso, che spero ne terrà di conto del povero mio pulcino...
― Oh per codesto, sta’ sicura; ― rispose tutto lieto il signorino — Marietta mia, io non so davvero come ringraziarti; e anche voi Tonia...
― Sì, sì, ― rispose tutta confusa la buona contadina ― le pare che di queste cose meriti il conto di parlarne tanto? ―
In quel mentre si fece sentire la limpida voce della signora Clotilde, che chiamava Alberto, perchè andasse a vestirsi per la passeggiata.
Io rimasi solo con le mie padrone, con quelle due buone creature che stavo per lasciare e che forse, ahimè, non avrei rivedute più mai. Esse avevano certi occhi imbambolati, che era uno sgomento a vederli. La Maria mi prese fra le mani, e avvicinandosi al pollaio nelle cui vicinanze si era sicuri di trovar sempre la mia mamma, mi baciava e ribaciava piangendo.
― Poverino, ― mi diceva sottovoce ― vieni a passar questi ultimi giorni con la mamma e i tuoi fratellini; tu vai certamente a star meglio e, in confronto a loro, diventerai un signore; ma però non te ne insuperbire; ricordati sempre della povera borgata dove sei nato e cresciuto, e anche della tua padroncina, che t’ha voluto tanto e poi tanto bene. —
In quel momento mi sentivo scoppiare dalla passione, e chi sa quel che avrei pagato a essere un bambino per poter dire tutto quello che avevo nel cuore.
Ma come si fa! noi altre bestie siamo condannate, o bene o male che la ci vada, a star sempre zitte, e tutto quel che potei fare, si fu di pigolare in modo compassionevole.
La Maria mi lasciò dalla mamma che se ne stava tranquillamente beccando un cesto d’insalata ricciolina; povera mamma! non se l’aspettava, no, la bella notizia che ero per darle!
Eppoi, volete che ve ne dica una, bambini miei?
Già ho promesso fin dal principio di questa storia d’esser sincero e ne vada pure qualunque cosa, sarò. Quando si è data una parola, bisogna mantenerla a ogni costo.
Dovete dunque sapere, che in mezzo al dolore di lasciar la famigliola, la Marietta e quel mio caro luogo natale, sentivo anche una gran compiacenza nel dover mutar vita. E che mutamento era quello che si preparava per me! Dalla campagna alla città, da una casa di contadini al palazzo d’un signore, e da un casotto rustico e disadorno a un pollaio elegante e spazioso.
E la soddisfazione di diventare un signore e di guardar d’alto in basso tutti i polli campagnuoli, c’era da contarla per nulla?
E il piacere di venire ogni tanto a salutar la mamma e di tenerle un linguaggio più scelto e grazioso, doveva forse essermi indifferente?
Eh via! Ce n’era più di quel che bisognava per far girar la testa ad una povera bestiolina inesperta com’ero io!
Detti la gran notizia alla mamma, tremando, balbettando e facendo grandi sforzi per nasconderle l’interna mia compiacenza.
Ma essa, ahimè, se ne avvide: già di che cosa non s’avvedono le madri affettuose?
Crollò il capo, schiamazzò un paio di volte con aria di dubbio, e dopo avermi guardato ben bene negli occhi, quasi avesse voluto leggermi dentro, esclamò:
― Tu dunque ci lasci, caro figliuolo! Immaginati il mio dispiacere e quello de’ tuoi fratellini! È vero che il sor Albertino è un buon fanciullo e ti vorrà bene, ma però capirai che un signorino come lui non potrà perdersi tutto il santo giorno con te, come
faceva la nostra Marietta. Eppoi non avrai più la mamma, gli amici...
― Spero che ci rivedremo presto: ― risposi commosso ― le montagne stanno ferme e gli uomini camminano.
― Ma per i polli è un’altra faccenda, caro il mio piccino. Noi altri, per lo più, e allorchè non siamo destinati a servir di cibo agli uomini, cresciamo e moriamo nel luogo ove siamo nati. Chi vuoi che si prenda il bel divertimento di portare in giro un galletto o una gallina e di farla viaggiare come potrebbe succedere a un bel cagnolino? Non mi voglio illudere figliuol mio, io ti perdo e per sempre. ―
E qui la povera gallina si mise a piangere dirottamente.
— Via, mamma! — esclamai con un fil di voce — si faccia coraggio; pensi che vo in città, in un bel palazzo, fra dei signori, i quali certamente non mi faranno mancar di nulla;... pensi...
— Sai a che cosa penso eh? — interruppe mia madre mestamente penso che non ti par vero di mutar condizione, e che il dolore che provi nel separarti da noi, non è poi quella gran cosa che vorresti darmi ad intendere. —
Ero colto sul vivo.
Non avendo il coraggio di negare, mi contentai d’abbassare il capo con aria impermalita.
Ma la mamma non era gallina da lasciarsi posar mosche sul naso; e traendomi vicino a sè, soggiunse:
— Sì, figliuol mio, l’idea di diventare un signorino t’ha sconvolto la testa e me ne dispiace di cuore, perchè prevedo quanto dovrai soffrire allorchè le vicende tutt’altro che liete della nuova vita ti apriranno gli occhi alla verità. Io, peraltro, voglio parlarti il linguaggio della sincerità e dell’esperienza, e perchè questo non ti sia grave, mi servirò d’una breve novelletta, che io credo molto adatta al caso tuo. O senti:
— «Andando il topo della città in campagna, trovò il topo campagnolo e fecero gran festa e allegrezza insieme: e quello della campagna menò quello della città a mangiare seco, ponendogli avanti di quelle cose che offre la campagna, con lieto e grazioso volto: e stettero insieme in quel luogo con gran diletto e sicurezza. Finito il mangiare, il topo contadino pregò gentilmente il rustico amico che gli facesse compagnia infino alla città, e ciò fece molto volentieri.
«E giunti alla città menollo in una dispensa dov’era usato di stare alcuna volta, e postogli innanzi carne, farina e altre vivande, pregavalo acciocchè di quelle cose prendesse sicuramente.
«E mentre stavano allegramente mangiando, il padron di casa incominciò ad aprir l’uscio; e al rumor che facea la chiave nella serratura, il topo cittadino, temendo la morte, e poco curandosi dell’infelice invitato, fuggì con maravigliosa rapidità.
«Allora il topo campagnolo, vedendosi abbandonato, rifugiossi in un cantuccio, e dalla solenne paura ch’egli ebbe, gli s’imbiancaron le basette e si buscò una bella febbre.
«E poi che il padrone della dispensa fu partito, il topo della città uscì fuori, e vedendosi scampato, chiamò il compagno con grande allegrezza; e confortavalo e rassicuravalo con queste parole:
«— Il pericolo è sparito; fa’ cuore, caro fratellino, e assaggia questo intingolo di frutta e miele. —
«Ma il topo dei campi rispose:
«— In questa dolcezza si nasconde un veleno amaro: per me preferisco mangiar le mie fave secche in santa pace, anzichè le tue ghiotte vivande col tremito della paura; tu che ci sei avvezzo e a cui non dà noia il turbamento della mente, rallegrati di codeste ricchezze: in quanto a me torno lieto a’ miei campi, risoluto di mai più abbandonarli. — »
Che te ne pare, caro figliuolo, di questa novelletta?
— Dico, mamma mia, — risposi allora, che il povero topo di campagna aveva forse ragione, ma non a tutti quelli che miglioreranno la loro condizione avverrà lo stesso.
— Dio lo voglia, figliuol mio, e possa tu non mai rimpiangere la nostra umile ma riposata e tranquilla vita! —
Così ebbe fine il nostro colloquio.
Giunse finalmente il punto della partenza; ma in quel momento, allorchè vidi le lagrime angosciose della madre mia, il viso pallido e dolente della cara Marietta, i campi e la casa, dorati dalla luce del sole in sul tramonto, allorchè udii il disperato pigolare de’ miei fratellini, l’abbaiare del vecchio cane da pagliaio e il canto lieto degli uccelletti che s’apparecchiavano al riposo, provai uno sgomento, una smania e una voglia così intensa di piangere, che mi ci volle del buono e del bello per non farmi scorgere da’ miei nuovi padroni.
Scambiai un ultimo bacio con la mamma, una carezza con la Marietta, e guidato da Albertino mi diressi verso il cancello del podere, dove stava ferma, da un pezzetto, una bella carrozza a due cavalli.
Il signor Angelo e la signora Clotilde, dopo aver salutato affettuosamente i buoni contadini, vi salirono; Alberto fece lo stesso, ed io, rimasto in terra, aspettavo d’esser preso, allorchè tutto affannato, sbucò da una viottola Giampaolo con una gran gabbia in mano, che avea servito altre volte per la cova dei piccioni.
— Sor padroncino, eccole la gabbia che mi aveva chiesta, — disse costui sorridendo; e chinatosi fino a me, mi prese e mi ci chiuse, e imprigionato a quel modo, mi consegnò ad Alberto, il quale, chiestone prima il permesso a’ genitori, mi pose sul sedile della carrozza, accanto a sè.
Dopo pochi minuti il legno partì velocemente.
S’immaginino i miei lettori com’io dovessi stare e quali pensieri mi mulinassero pel cervello! Non appena lasciata la casuccia natale, già avevo perduto il più caro, il più prezioso de’ beni: la libertà!
Invano mi provavo ad allungar ben bene il collo e a ficcare il capino attraverso le stecche della gabbia per salutare un’ultima volta i cari luoghi ov’ero nato e cresciuto, ma ahimè! la carrozza correva via come il vento e mi vedevo sparire davanti, senza avere il tempo di guardarli, e campi e alberi e monti.
— Buon Dio! — dissi fra me — che abbia a succedere altrettanto della mia felicità? Povero topo campagnolo, bada veh, che non avevi tutti i torti! —
Per tutta la strada non feci altro che sospirare; fortuna che il signor Albertino non se ne avvide, occupato com’era a discorrere co’ suoi genitori. Ogni tanto, però, mi guardava e mi metteva in bocca certi piccoli pezzetti di biscottini, de’ quali, a quanto pareva, doveva aver piene le tasche.
Ma sì! ci volevano altro che chicche, per consolarmi!
Pensavo sempre alla mamma; e quando un figliuolo pensa alla mamma che è lontana, e che forse piange, come volete che abbia il capo alle ghiottonerie?
Arrivammo al palazzo che era notte fatta; scesi col nuovo mio padroncino in un’anticamera illuminata, e fui consegnato a una donna tutta vestita di nero che insieme a due servitori stava sulla porta a riceverci, o, per meglio dire, a ricevere i signori Dalvi.
Questa, dopo aver consultato la signora Clotilde che sorrideva guardandomi (Alberto cascava dal sonno), mi portò in uno stanzino buio buio e buttatomi in un canto come si farebbe d’un cencio, mi lasciò con questo bel saluto:
— Ci mancavi proprio tu, grullerello, a venire a farci confondere e a insudiciar la casa! Già spero che il girarrosto o il micio ci libereranno presto della tua presenza. —
Come rimasi! Avrei voluto piangere e non potevo; mi si era formato alla gola come una specie di nodo. Oh, per dir la verità, la mia vita di signorino era cominciata proprio bene!
Come si fa a buttare sulla nuda terra un povero pulcino forestiero, senza dargli nulla, neanche una cannuccia per appollaiarsi? Sconta laggiù a casa!
Oh mia povera mamma, oh pietosa Marietta!
In tutta quella notte, che mi parve eterna, non potei quasi chiuder occhio, e se mi veniva fatto di appisolarmi un pochino, sognavo subito gatti e spiedi.
Al villaggio questa cosa non m’era successa mai; dormivo tutta la notte come un ghiro, e la mamma soleva dire per ischerzo che neanche una fucilata m’avrebbe destato. In città dunque non si dorme in pace come in campagna? Oh poveretto me!