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Utente:Mariomassone

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Patriot

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Incipit

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In realtà, morire non è stato doloroso. Se non fossi stato sul punto di esalare il mio ultimo respiro, non mi sarei mai sdraiato sul pavimento accanto alla toilette dell'aereo. Come potete immaginare, non era esattamente pulito.

Citazioni

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  • La possibilità di candidarmi alle elezioni mi era preclusa da molto tempo. Lo Stato non riconosceva il partito politico che guidavo e ne aveva appena rifiutata la registrazione per la nona volta in otto anni. Per qualche strana ragione, succedeva sempre che non riuscissimo a «compilare correttamente i moduli» e, nelle rarissime occasioni in cui un nostro candidato entrava nelle liste elettorali, spuntavano i pretesti più fantasiosi per negargli l'eleggibilità. (p. 5)
  • In un paese autoritario, dove per oltre due decenni il regime si era dato la priorità di inculcare nell'elettorato l'idea che le persone sono impotenti e non possono cambiare le cose, convincere la gente a uscire di casa e andare a votare non è mai stato un compito facile. Era pur vero, però, che i redditi erano calati per sette anni di fila, quindi se anche solo un terzo dei cittadini stufi del regime si fosse convinto ad andare ai seggi, nessun candidato di Putin avrebbe avuto una chance. A questo punto, come indurre gli elettori a votare? Con la persuasione? Offrendo in cambio qualcosa? Noi scegliemmo di farli arrabbiare. Di farli arrabbiare sul serio. (p. 6)
  • Considerando la realtà della Russia, scartammo fin dall'inizio l'idea di un approccio giornalistico prudente, fatto degli infiniti giri di parole – presunto, possibile, cosiddetto – tanto amati dai consulenti legali. Chiamavamo le cose col loro nome: ladro, corruzione. Se qualcuno aveva una proprietà sontuosa, non ci limitavamo a menzionarne l'esistenza, ma effettuavamo riprese con i droni e la mostravamo al pubblico in tutta la sua magnificenza. Dopodiché ne scoprivamo il valore e lo raffrontavamo con il modesto reddito che il burocrate suo proprietario dichiarava. (p. 6)
  • Quello che facevamo era intrattenere e al contempo scatenare indignazione con immagini della vita condotta dagli «umili patrioti che governano la nostra terra», spiegando come funzionano i meccanismi della corruzione e incitando a intraprendere azioni pratiche per causare il massimo danno al sistema di Putin. Il materiale non mancava mai. (p. 7)
  • In genere parlo volentieri con la gente, ma non in aereo: troppo rumore di sottofondo e non gradisco molto avere qualcuno che, a venti centimetri da me per farsi sentire, urla: «Lei indaga sulla corruzione in Russia, giusto? Be', senta cosa mi è capitato».
    La Russia è fondata sulla corruzione e a tutti è capitato qualcosa. (p. 12)
  • Provate a toccarvi il polso con un dito della mano opposta. Sentite qualcosa perché il vostro corpo rilascia acetilcolina e un segnale nervoso informa il vostro cervello di questa azione, che vedete con gli occhi e identificate con il senso del tatto. Adesso fate la stessa cosa con gli occhi chiusi: non vedete il dito, ma siete perfettamente in grado di stabilire quando toccate il polso e quando non lo fate. Questo perché, dopo che l'acetilcolina trasmette un segnale tra le cellule nervose, il vostro corpo secerne colineterasi, un enzima che arresta il segnale a lavoro terminato. Per farlo, «distruggere» l'acetilcolina «usata» e, con essa, ogni traccia del segnale inviato al cervello. In assenza di questo meccanismo, il cervello riceverebbe di continuo il messaggio del dito che tocca il polso, ripetuto milioni di volte. Sarebbe simile al cosiddetto DDoS, un Distributed Denial of Service (ovvero un attacco distribuito di negazione del servizio), ai danni di un sito web: clicca una volta e il sito si apre, clicca un milione di volte al secondo e il sito va in crash.
    In caso di DDoS, puoi ricaricare il server o installarne uno più potente. Con gli esseri umani, però, non è così semplice. Bombardato da miliardi di falsi segnali, il cervello si disorienta, non è in grado di elaborare quanto succede e alla fine va in blocco. Dopo un po' di tempo, la persona smette di respirare, visto che anche questa è una funzione controllata dal cervello.
    È così che agiscono le sostanze nervine. (pp. 14-15)
  • Quando la gente mi chiede com'è morire a causa di un'arma chimica, faccio due associazioni mentali: i Dissennatori di Harry Potter e i Nazgûl del Signore degli Anelli. Il bacio di un Dissennatore non fa male: la vittima sente solo la vita che la lascia. L'arma principale di un Nazgûl è la spaventosa capacità di farti perdere la volontà e la forza. Lì in quel corridoio, un Dissennatore mi bacia mentre un Nazgûl si mette al mio fianco. (pp. 15-16)
  • Se immaginate che uscire dal coma sia una faccenda più o meno istantanea, come vorrebbero farci credere i film, mi tocca deludervi. Sarei fin troppo lieto di affermare che un attimo prima stavo morendo a bordo di un aereo e un'attimo dopo ho aperto gli occhi scoprendo che mi trovavo all'ospedale e davanti a me c'era la mia amata moglie, o perlomeno una squadra di medici che mi scrutavano ansiosi. Non è andata così. Tornare alla vita normale ha comportato diverse settimane di visioni molto sgradevoli e persistenti. L'intero processo è assomigliato a un viaggio interminabile e altamente realistico all'inferno. Anzi, non mi sorprenderebbe se l'idea dei suoi gironi fosse venuta proprio a persone che sono state in coma e hanno visto ciò che ho visto io. C'è stata una sequenza ininterrotta di allucinazioni, in mezzo alle quali di tanto in tanto intravedevo un barlume di realtà. Con il passare del tempo, la realtà aumentava e le allucinazioni diminuivano. (p. 17)
  • Un giorno, quando ormai avevo una migliore connessione con la realtà e stavo addirittura cominciando pian piano a ricordare qualche parola d'inglese, chiesi all'infermiere un bicchier d'acqua. Lei disse che me l'avrebbe data solo se avessi scritto quella parola, e mi porse una penna. Ricordavo come si dice «acqua» in inglese, ma proprio non sapevo come scriverlo, per quanto mi sforzassi. Cominciai ad arrabbiarmi e chiesi di nuovo, con stizza, di darmi l'acqua. «Prova un'ultima volta a scriverlo» mi disse l'infermiera con fermezza. Io feci qualche scarabocchio sul foglio, andai su tutte le furie e in un attacco di collera scrissi la parola che di colpo mi era emersa dall'inconscio: fuck. Con un sottile senso di vendetta, ma soprattutto orgoglio, porsi il foglio all'infermiera. Lei mi guardò con commiserazione. Avevo scritto fkuc. (p. 20)
  • Yulia e Leonid provarono più volte a raccontarmi quello che mi era capitato. Per un po' ebbero sarso successo. Sembrava che stessero bussando a una porta chiusa dietro cui si celava il mio cervello, che però non rispondeva. Mi dissero dell'avvelenamento; di come mi ero sentito male sull'aereo; dell'ospedale di Omsk, pieno di agenti dell'FSB; di come per un sacco di tempo il regime non avesse accettato di trasferirmi; del viaggio in Germania... ma io mi limitavo a fissarli con lo sguardo vitreo. Mi raccontarono profusamente e nei dettagli che Putin aveva cercato di assassinarmi mentre ero in visita in Siberia; che laboratori indipendenti avevano confermato che ero stato avvelenato e, per giunta, con lo stesso agente chimico che i servizi segreti russi avevano usato per avvelenare Sergei Skripal' e sua figlia a Salisbury. Poi, quando per l'ennesima volta pronunciarono la parola «novičok», di colpo li guardai dritto negli occhi e dissi: «Ma che cazzo? È una tale idiozia!». (pp. 21-22)
Civili evacuati dopo il disastro di Černobyl'
  • [Sul disastro di Černobyl'] Per strada i soldati erano inguainati da capo a piedi in insolite tute bianche. Indossavano maschere antigas che li facevano assomigliare a una qualche strana specie animale. Io vengo da una famiglia di militari, e ovviamente a casa avevamo delle maschere antigas, ma la loro unica funzione era essere indossate dai figli degli amici dei miei che venivano a trovarci: si mettevano a correre per l'appartamento, fingendo di essere elefanti e strillando di gioia. Il gioco poteva durare due o tre minuti al massimo, perché sotto le maschere antigas si moriva di caldo. I soldati in strada non stavano giocando e non si divertivano affatto. Fermavano le automobili e le lasciavano procedere solo dopo aver esaminato le loro ruote con una speciale asta metallica: un comportamento piuttosto bizzarro. (p. 29)
  • Quando per l'ennesima volta mi sentivo chiedere se fossi ucraino o russo, mi sforzavo di non dare una risposta netta. Era come se mi avessero chiesto a chi volevo più bene, a mio padre o a mia madre, e per quella domanda non esisteva una risposta valida. (p. 31)
  • [Sul disastro di Černobyl'] Per il resto del mondo fu un enorme disastro nucleare. Per l'Unione Sovietica, uno dei fattori scatenanti del crollo di un paese già colpito dalla crisi economica del suo «socialismo pienamente sviluppato». Per il ramo ucraino della nostra famiglia fu un'immane tragedia che spazzò via la vita di un tempo. Per me rappresentò il primo evento, la prima lezione di vita, che ebbe un impatto formativo sul mio modo di vedere le cose. Le radiazioni potevano essere lontane, ma l'ipocrisia e le bugie inondarono la nazione intera. (p. 32)
  • La risposta standard, e in tutto e per tutto demenziale, delle autorità sovietiche – e in seguito russe – a qualsiasi crisi è decidere che è nell'interesse della popolazione ascoltare un flusso incessante di bugie. Altrimenti, dice il ragionamento, le persone senza dubbio scapperanno di casa e si metteranno a scorrazzare in uno stato di anarchia totale, appiccando il fuoco ai palazzi e ammazzandosi a vicenda.
    La verità è che non è mai successo niente del genere. Nella maggior parte delle emergenze, la gente è preparata a comportarsi in modo razionale e disciplinato, soprattutto se la situazione viene spiegata e viene illustrato cosa occorre fare. Eppure, come ho potuto constatare più volte in circostanze meno drammatiche, la prima reazione ufficiale è invariabilmente quella di mentire. I funzionari non traggono alcun beneficio pratico dal farlo, è semplicemente una regola: in una situazione di imbarazzo, menti. Sminuisci i danni, nega sempre e comunque, bleffa. Più tardi si potrà sistemare ogni cosa, ma adesso, nel momento dell'emergenza, i funzionari non hanno altra alternativa che mentire, perché la popolazione considerata idiota non è pronta per la verità. (p. 33)
  • Ero solo un bambino, ma la domanda che più mi tormentava era perché le autorità stessero mentendo quando tutti attorno a me sapevano la verità. Quanto era patetico quel tentativo di ingannarci? Se devi mentire, dovresti almeno aspettarti di trarne qualche beneficio. Dici di essere malato e non sei costretto ad andare a scuola. Perlomeno ha un senso. Ma loro dove volevano andare a parare? [...] Se il disastro di Černobyl' non fosse mai avvenuto, probabilmente avrei sentito parlare meno di politica. Senza dubbio non mi avrebbe toccato così da vicino, e le mie opinioni politiche sarebbero state un po' diverse. Ma le cose andarono come andarono, e molti anni dopo, quando ero un uomo adulto, mentre guardavo in tivù l'appena nominato presidente ad interim della Russia, il quarantasettenne Vladimir Putin, lungi dal condividere l'entusiasmo per il nuovo, «energico leader» del paese, continuavo a pensare: «Questo mente in continuazione, proprio come succedeva quando ero bambino». (pp. 37-38)
  • [Sulla dedovščina] Inutile dire che una pratica così idiota non migliorava affatto la disciplina, e in realtà il nonnismo non faceva che minare il rispetto per l'esercito. I soldati che tornavano a casa dopo due anni di servizio alla patria descrivevano in termini piuttosto scabrosi le violenze ai futuri coscritti. Le loro rivelazioni ricordavano da vicino quelle delle persone che escono dal carcere. Le madri ascoltavano inorridite, dopodiché non avevano il minimo desiderio di mandare i figli a fare la leva. Periodicamente, dopo che l'ennesimo giovane sfortunato, incapace di sopportare oltre i maltrattamenti, si era suicidato o aveva sparato ai suoi aguzzini, l'esercito lanciava l'ennesima campagna antinonnismo, che non serviva mai a niente. La pratica è istituzionalizzata e si può combattere solo cambiando l'istituzione, nello specifico creando un esercito in cui militari di professione, uomini e donne, ricevono uno stipendio per difendere il paese. Quello che non serve è un esercito che dipende da poveri scalognati prelevati dalle loro famiglie (nell'Unione Sovietica per due anni, oggi per uno) e costretti a passare il tempo in un'istituzione che costituisce una forma bislacca di scuola di sopravvivenza. (pp. 43-44)
  • Non sopporto la parola «mentalità», perché mi sembra un concetto del tutto artificiale, ma una cosa è indiscutibile: esiste un certo tipo di carattere nazionale russo, e la spacconeria nel resistere a privazioni che potrebbero tranquillamente essere evitate ne rappresenta un aspetto significativo. Sopportiamo condizioni atroci, critichiamo le autorità, ce ne lamentiamo, eppure al tempo stesso riusciamo a vantarci di essere in grado di sopravvivere a queste circostanze orribili, e lo consideriamo un notevole vantaggio competitivo in un confronto ipotetico tra nazioni. [...] Non serve essere grandi psicologi per capire che cosa c'è alla radice di questo: noi russi aneliamo a una vita normale, ben consapevoli che siamo stati noi stessi a inventare tutti i nostri problemi attuali. Proprio non riusciamo ad ammettere, però, di essere idioti, quindi cerchiamo qualcosa per cui andare fieri, mentre in realtà non c'è proprio niente di cui vantarsi. (pp. 44-45)
  • Tutti i sovietici amavano criticare le autorità, ma avevano il terrore dell'onnipotente KGB (nelle basi militari si parlare di osobisty, «agenti speciali»). La preoccupazione più grande erano le intercettazioni telefoniche. Non era certo credibile che il KGB avesse abbastanza personale per origliare le conversazioni in ogni appartamento. Eppure, quando gli amici venivano a trovare mio padre e, dopo qualche vodka in cucina, cominciavano a bersagliare il governo, mia madre metteva il telefono sotto un cuscino. Pensavo che fosse bizzarro, e quando chiesi perché lo faceva, lei liquidò la mia domanda affermando che non si poteva sapere che cosa sarebbe stato detto e chi lo avrebbe sentito. A me sembrava assurdo. Quelli erano adulti che parlavano di questioni del tutto ordinarie, come l'impossibilità di trovare ketchup bulgaro nei negozi e la necessità di mettersi in fila per la carne alle cinque del mattino. Io davvero non riuscivo a capire di cosa si dovesse aver paura. Qualsiasi ragazzo in età scolare era stato nei negozi e aveva visto le code interminabili, e sapeva che la parola più usata nel lessico sovietico era defitsìt (carenza). Significava che c'erano persone che non ti permettevano di dire una cosa risaputa. Inoltre, sembrava che assoldassero altra gente per origliare dal telefono di casa tua, al punto che avevamo bisogno di usare un cuscino per proteggerci. Ironico che il mio primo ricordo dell'uso di quel cuscino risalga al 1984. (pp. 46-47)
  • Quando Sasha, mio cugino, venne a fare una gita a Mosca, fu portato, com'è ovvio, al Mausoleo di Lenin, una classica destinazione turistica per un bambino sovietico. Quando tornò in Ucraina, corse dalla nonna urlando esaltato: «Ho visto Lenin!». E lei rispose, secca: «Be', non gli hai sputato in faccia?». La parte ucraina della nostra famiglia si piegava in due dal ridere, ma io ero inorridito. [...] Mi ci volle qualche tempo per racimolare il coraggio di chiedere perché la mia amata nonna disprezzasse tanto «il migliore fra gli uomini». Risultò che il sentimento era radicato nella storia della sua famiglia. Lei era l'undicesima figlia, l'ultima, e l'unica femmina. La loro terra, con undici uomini che ci lavoravano da mattina a sera, era molto prospera. La loro casa era stata la prima in paese a sfoggiare un tetto di ferro, e avevano persino costruito un mulino, segno di inaudito benessere. Poi erano state introdotte le fattorie collettive. Pur essendo riuscita a evitare la deportazione in Siberia toccata a migliaia di altri kulaki (contadini ricchi), la famiglia della nonna fu espulsa dalla propria abitazione e costretta a trasferirsi nel fienile. Il tetto di ferro, che era stato l'invidia del paese intero, era stato portato in città, dove lo avevano venduto, per poi spendere i soldi, secondo la leggenda famigliare, «in alcol per il consiglio del paese». All'epoca quel particolare mi parve poco credibile, ma oggi non ho dubbi che fosse vero. (pp. 48-49)
  • La nostalgia per l'Unione Sovietica è un elemento importante della Russia di oggi, e un fattore politico da non sottovalutare. Molto prima dell'appello di Trump, «Make America Great Again», Vladimir Putin aveva pronunciato lo slogan ufficioso del suo regno: «Ci devono rispettare e temere quanto l'Unione Sovietica», cavalcando questa retorica fin dai primi passi che ha compiuto per arrivare al potere. A me sembrava ridicolo ed ero certo che non avrebbe funzionato, però mi sbagliavo. È un pensiero banale, ma il cervello umano è davvero strutturato in modo da tornare con il ricordo solo a quanto c'era di buono nel passato. Coloro che hanno nostalgia dell'Unione Sovietica in realtà hanno nostalgia della loro giovinezza, un'epoca in cui tutto doveva ancora succedere, in cui giocavi a pallavolo sulla spiaggia con i tuoi amici e di sera bevevi vino, grigliavi spiedini di carne e non ti preoccupavi della criminalità, della disoccupazione e delle incerte prospettive per il futuro. Anche le tipiche assurdità sovietiche come essere spediti a «raccogliere patate», il lavoro obbligatorio nei campi in cui venivano mandati allievi delle scuole, studenti universitari e lavoratori delle aziende cittadine negli ultimi anni dell'Unione Sovietica, sono ricordate come nient'altro che un simpatico diversivo. All'epoca, smuovere il terreno congelato per «aiutare i lavoratori delle fattorie collettive a salvare il raccolto» era una gran scocciatura e stava solo a dimostrare il fallimento totale del sistema agricolo sovietico. Ma chi si ricorda gli stivali di gomma che pizzicavano, lo sporco sotto le unghie e il senso di totale inutilità di quelle fatiche, quando è tutto eclissato dall'immagine mentale di una compagna di classe che ti rivolgeva un sorriso smagliante dal lotto di terra vicino? (pp. 52-53)
  • Quando sei un bambino o un adolescente, tutto sembra andare bene, e i politici spesso sfruttano questa legge della vita per oscurare la nostra immagine del futuro presentando una falsa immagine del passato. È importante, però, che ci comportiamo come esseri umani e non come pesci rossi, la cui memoria è notoriamente limitata agli ultimi tre secondi. Bersagliare di patate i tuoi amici nei campi era divertente, non c'è dubbio, ma il ricordo più durevole dell'Unione Sovietica della mia infanzia è comunque la coda per il latte. Mio fratello era nato nel 1983. Una casa con un bambino piccolo ha bisogno di un costante rifornimento di latte e per diversi anni io sono stato responsabile del suo acquisto. Ogni giorno, dopo la scuola, andavo al negozio e facevo la fila per almeno quaranta minuti per comprare quel maledettissimo latte. Spesso non era ancora stato consegnato, e tu te ne stavi lì ad aspettare che arrivasse, in compagnia di decine di adulti ingrugniti. Se eri un po' in ritardo, era possibile che tutto il latte fosse già venduto, e quella sera i tuoi genitori non sarebbero stati contenti. Per questo non ho alcun desiderio di tornare all'Unione Sovietica. Uno Stato che non riesce a produrre abbastanza latte per i suoi cittadini non merita la mia nostalgia. (pp. 53-54)
  • Il maggiore problema di Gorbačëv, che alla fine lo diventò anche per l'URSS, era l'incertezza delle azioni, sempre poco convinte. Voleva essere un riformatore, ma temeva le conseguenze di una vera riforma; annunciava grandi cambiamenti solo per cercare poi di evitarli; aprì uno spiraglio alla libertà, ma quando tutti vollero sfruttarlo, cercò di richiudere la porta in fretta e furia. Il fatto era che la gente voleva quella porta spalancata, non una fessura dalla quale sbirciare. (p. 59)
  • Gorbačëv, e in seguito la prima generazione di riformatori sotto Boris Eltsin, hanno subito la tragedia di essere costretti a introdurre riforme perché l'economia che avevano ereditato era stata distrutta dal regime comunista, solo per sentirsi poi accusare di averla distrutta loro. La pianificazione economica sovietica stava crollando: non circolavano merci a sufficienza e, a conferma che avevi il diritto di acquistare beni che scarseggiavano, vennero introdotte le tessere per le razioni da presentare nei negozi. [...] L'unico rimedio a quella situazione era una riforma politica ed economica, ma l'opinione pubblica scambiò la causa per l'effetto. La gente credeva che non fossero stati il PCUS, il Comitato statale per la pianificazione (Gosplan) e il KGB ad aver portato il paese al punto in cui perestrojka e riforme erano diventate necessarie per salvarlo, ma l'opposto. Si pensava infatti che le riforme avessero distrutto il vecchio e stabile modo di vivere e avessero distrutto il vecchio e stabile modo di vivere e avessero acuito le carenze, introdotto la necessità delle tessere e peggiorato la povertà. Il termine «riforma» era, e rimane ancora oggi, offensivo: «Sappiamo tutto delle vostre riforme. Ci ricordiamo delle tessere e di come siamo diventati tutti mendicanti!». Lo stesso destino che sarebbe toccato in seguito alle parole «democrazia», «economia di mercato» e «capitalismo». (pp. 61-62)
  • Più diventavo grande, meno tolleravo Gorbačëv, ma adesso lo vedo sotto una luce positiva, se non altro perché si è dimostrato del tutto incorruttibile. In questo era unico. Chiunque abbia avuto potere nel periodo di transizione dal socialismo al capitalismo ha cercato di accaparrarsi una fetta di torta il più grande possibile, e quasi tutti ci sono riusciti. [...] Quando Gorbačëv diede le dimissioni, non portò niente con sé, anche se aveva avuto enormi opportunità per diventare ricco. [...] L'opinione pubblica può pensare quanto vuole che non ne abbia avuto l'opportunità, ma resta il fatto che non ci provò nemmeno. A mio parere era semplicemente un diverso tipo di persona e non era avido. (pp. 63-64)
  • [Sulla dissoluzione dell'Unione Sovietica] Non ho avuto rimpianti. Dopotutto, che cosa avevo perso? La Russia, il mio paese, era ancora lì. Avevo ancora la mia lingua, Tolstoj e Dostoevskij, Mosca e Kazan' e Rostov. L'esercito era ancora lì e lo Stato pure. Persino i burocrati erano ancora al loro posto. Kiev, Tallinn e Riga non erano svanite nell'aria. Tutto era come prima e potevi visitare quelle città, se volevi. La differenza stava nel fatto che adesso avevi una scelta, avevi la libertà. Ciò che resta di quella libertà nell'odierna Russia di Putin che finge di essere l'URSS è in realtà molto più di quanto c'era allora. Adesso puoi scegliere che lavoro fare, dove vivere e quale stile di vita adottare. Non sei più obbligato a gareggiare con gli altri per stabilire chi sia il più ipocrita e quindi si possa guadagnare il permesso di andare all'estero. Adesso puoi semplicemente comprare un biglietto e partire.
    A questo punto c'è sempre qualcuno che dice: «Solo che adesso devi avere abbastanza soldi», e poi si mette a ricordare le garanzie sociali e l'uguaglianza dell'URSS. In realtà non esisteva niente di simile. Il divario sociale che c'era all'epoca tra un contadino di un colletivo agricolo e un membro di un comitato di un collettivo agricolo e un membro di un comitato regionale del Partito comunista è pari a quello che oggi separa un oligarca e un operaio. Ai tempi dell'URSS, case e automobili erano di gran lunga meno accessibili rispetto a ora. Certo, la gente riceveva un alloggio gratuito, ma dopo una lista d'attesa di vent'anni. Senza dubbio il tetto del lusso e della ricchezza è molto cambiato: con l'URSS era al primo piano di una dacia nel «villaggio degli scrittori» nelle campagne attorno a Mosca, mentre oggi non c'è proprio, è schizzato lontanissimo, superando quelli degli chalet francesi e dei grattacieli ai bordi di Central Park a New York. (p. 67)
Soldati sovietici in Afghanistan
  • La guerra in Afghanistan incombe minacciosa sui miei ricordi d'infanzia, ma pesava ancoa di più sul destino della nazione. La tomba dell'URSS è stata scavata da Černobyl', dalla crisi economica, dall'invio di truppe in Afghanistan nel 1979 e dai successivi dieci anni di inutile guerra. Per me era rappresentata soprattutto dalle pompose stelle di un rosso brillante all'ingresso dei condomini. Erano invariabilmente accompagnate da un'iscrizione che diceva: «Qui ha vissuto Tizio, caduto eroicamente nell'adempimento del proprio dovere internazionale nella Repubblica democratica dell'Afghanistan». Ricordo anche quando venne ucciso il figlio di un'insegnante della nostra scuola. La notizia si diffuse come un lampo e inizialmente tutti noi alunni rimanemmo silenziosi in maniera consona al momento. Ma i bambini sono bambini e, all'intervallo, stavamo urlando e lanciandoci oggetti come sempre. Uscì la nostra professoressa più composta: non l'avevo mai sentita alzare la voce, ma si mise a urlare definendoci spudorati. (p. 68)
  • In quegli anni, i genitori dei ragazzi in età di leva erano terrorizzati all'idea che i figli venissero mandati in Afghanistan a combattere: era una lotteria spaventosa alla quale tutto il paese doveva prendere parte. L'orrore non fece che accrescersi quando tornarono a casa sempre più «200», in gergo militare le bare di zinco sigillate nelle quali arrivavano i cadaveri, le Cargo 200. Mio cugino fu arruolato nell'esercito, e ricordo i miei parenti preoccupatissimi che venisse mandato in Afghanistan, soprattutto perché, da ragazzo patriottico ma non molto saggio qual era, aveva chiesto di essere assegnato proprio là. Per fortuna non accadde. (pp. 68-69)
  • La guerra in Afghanistan ebbe un peso cruciale non solo per noi, ma anche per il resto del mondo, e ancora oggi ne subiamo le dirette conseguenze. L'attuale estremismo islamico è nato in misura significativa da lì. Il governo degli Stati Uniti, rispondendo alla criminale idiozia dei leader sovietici, si è comportato in maniera altrettanto stupida facendo del suo meglio per trasformare la guerra dei mujaheddin afghani contro l'URSS in una jihad islamica. All'epoca, negli anni Ottanta, arrivarono nella regione frotte di volontari da tutto il Medio Oriente e da un confronto tra socialismo e capitalismo – come insisteva a intenderlo l'URSS – il conflitto si trasformò in una guerra santa contro gli infedeli. Il disastroso errore di valutazione, però, fu credere che quanti avevano imbracciato le armi in difesa della propria religione potessero essere fermati da una decisione politica dicendo semplicemente: «Ok, ragazzi, adesso basta: abbiamo vinto, torniamo tutti a casa». Coloro che erano insorti sotto le bandiere verdi dell'Islam non si accontetarono di scacciare le truppe sovietiche: credevano davvero agli slogan che li avevano ispirati, quindi adesso chiedevano che l'Afghanistan si trasformasse in un paese guidato dalla sharia. Osama bin Laden, al quale gli americani avevano donato denaro e armi, si stava già trasformando nel loro nemico perché i reciproci obiettivi stavano cominciando a divergere. Gli Stati Uniti stavano perdendo interesse e non desideravano più finanziare la jihad. Nella visione di un fanatico religioso, tuttavia, chi non è con noi è contro di noi. Ed è stato in Afghanistan, dove erano andati a scatenare una guerra santa, che i leader dello Stato islamico come Abu Bakr al-Baghdadi divennero ciò che erano. Quella guerra continua ancora oggi. (pp. 70-71)
  • Si scoprì che essere poveri era più sopportabile quando lo erano tutti, ma era intollerabile se vedevi il tuo vicino molto più ricco di te. Si sente spesso parlare dell'invidia del popolo russo o sovietico verso i primi imprenditori, e per questo motivo gli anni Ottanta furono un periodo tanto odiato. Credo tuttavia che la causa fosse l'ineguaglianza delle opportunità. Se Gorbačëv avesse potuto rendere agevole per tutti diventare imprenditori, se lo avessero fatto milioni di persone e non qualche decina di migliaia tra i più intelligenti, o i più furbi, oppure tra coloro che godevano di una buona posizione, le cose sarebbero potute andare diversamente. E invece fondare una cooperativa, e in seguito un'azienda, era un calvario burocratico di stampo sovietico. Volendo avviare un'attività, dovevi pagare tangenti oppure avere i contatti giusti, o almeno possedere carisma da vendere. Tutto questo creò la durevole immagine dell'uomo d'affari scaltro e subdolo, diventato tale con mezzi meno che legali. (p. 76)
Carri armati a Mosca durante il putsch di agosto
  • [Sul putsch di agosto] Nella nostra cittadina nessuno batteva ciglio alla vista dei carri armati. I visitatori amavano essere fotografati accanto al cartello «Attenzione, carri armati» che era un po' il nostro simbolo. Quel giorno, però, sembrava tutto diverso. Anzitutto, percorrevano la strada asfaltata, cosa che abitualmente non facevano perché l'avrebbero distrutta. Poi sembrava che stessero andando in guerra o fossero impegnati in un'operazione speciale di qualche tipo. La scena aveva un che di caotico. Ma l'aspetto più importante era che si stavano dirigendo verso Mosca. Felice di avere una scusa per non andare alla dacia, tornai a casa e accesi il televisore per capire cosa stesse succedendo. Stavano trasmettendo Il lago dei cigni, e per qualsiasi sovietico questo significava che stava accadendo qualcosa di grave. Fin da piccolo avevo imparato che, se invece dei cartoni animati trasmettevano un concerto di musica classica, con ogni probabilità era morto un leader e sarebbe cominciato un diluvio di cordoglio pubblico. Questa volta, però, non era affatto chiaro chi fosse deceduto. (p. 77)
  • [...] venne letto alla radio un lunghissimo discorso al popolo sovietico. Era incredibilmente prolisso, con frasi che sembravano tratte da un editoriale della «Pravda» (e nel 1991 gli editoriali della «Pravda» erano sinonimo di cliché, idiozia e disonestà). Rammento solo che veniva condannato con forza il fiorire della «speculazione». Il monito non poteva essere più chiaro: la nosra futura vita di agi grazie a capitalismo ed economia di mercato era a rischio. Ricordo anche la frase: «Mai nella storia del paese la propaganda di sesso e violenza ha assunto simili proporzioni, mettendo in pericolo la vita e la salute delle generazioni future». Un attacco vero e proprio alle migliori conquiste della nostra epoca. Le immagini di donne nude non avevano fatto in tempo ad apparire su giornali e periodici, e queste persone le volevano bandire con il pretesto che erano una minaccia per la nostra salute. Per aggiungere il danno alla beffa, era una replica di quegli stessi programmi che anni prima avevano condannato la musica rock perché conteneva «una propaganda sfrenata di sesso e violenza». Era chiaro come gli autori della dichiarazione l'avessero scritta con il sottile intento di toccare le più profonde corde del cuore del popolo sovietico. Nell'ascoltare le parole che vietavano il sesso e il profitto, e parlavano della necessità di rifornire i villaggi di carburante e lubrificanti (altro argomento dei golpisti), i sovietici avrebbero picchiato i pugni sul tavolo dicendo: «Ehi, i compagni del Comitato di emergenza stanno facendo proprio la cosa giusta! Era ora di aiutare i contadini e bandire il sesso!». (p. 79)
  • Sono stato fortunato a essere tra coloro che non hanno subito onde d'urto dal crollo dell'URSS. Se mio padre fosse stato un ufficiale dell'esercito non nella regione di Mosca, ma a Baku, nel Nagorno Karabakh, in Abcasia o negli Stati baltici, le cose sarebbero andate molto diversamente. Tutti i rancori accumulati negli anni divamparono infatti in conflitti e persino guerre. Scoprimmo da un momento all'altro che armeni e azerbaigiani si odiavano al punto che già stavano combattendo. Georgiani e abcasiani non erano certo vicini amichevoli che pranzavano insieme, anzi, si sarebbero reciprocamente scacciati dalle rispettive case. Le ragioni sottese a ciò che stava accadendo venivano spiegate in maniera dettagliata, e ogni paese aveva le proprie. Visto da Mosca tutto questo sembrava una pura e semplice follia. Perché si facevano guerra tra loro? Per anni avevano convissuto «nella famiglia unita e multietnica dei popoli sovietici», e adesso si massacravano per questioni territoriali e interetniche?
    Si trattava senza dubbio della visione egocentrica e certamente ignorante di qualcuno che, per un colpo di fortuna, si era trovato in un posto dove non erano in corso guerre o conflitti nazionali, ma soltanto una caccia molto metropolitana al denaro. Non riuscivo a immaginarmi nei panni degli armeni o degli azerbaigiani, e in ogni caso non avevo il minimo desiderio di farlo. Per motivi altrettanto egocentrici, il solo problema interetnico che mi interessasse era la difficile situazione dei russi: d'un tratto, la nostra era diventata la diaspora più grande in Europa. Per me era abbastanza semplice fare un esperimento mentale. Immaginavo che mio padre fosse stato mandato a servire nella XIV Armata, di stanza in Moldavia, e io fossi diventato improvvisamente parte della «minoranza di lingua russa». Sarei stato quantomeno molto insoddisfatto di quell'istantaneo cambiamento e del mio status di «minoranza». (p. 85)
  • I nuovi leader saliti al potere in Russia – tra i quali Putin e tipi come lui erano di terza o quarta categoria – ignorarono il problema dei russi bloccati fuori dal paese. Si sarebbe potuto evitare un gran numero di conflitti, e si sarebbero salvate vite, se il governo dell'epoca avesse proposto anche solo un programma basilare per il rientro dei russi in uno qualsiasi dei territori ancora appartenenti a Mosca. Com'è ovvio, nessuno si sarebbe affrettato a tornare dai prosperi Stati baltici, e in quel caso sarebbero serviti approcci diversi. Eppure le domande confuse di chi viveva in Uzbekistan, Kirghizistan e in molte altre repubbliche – Qual è adesso il nostro posto? Che cosa dobbiamo fare? – avrebbero dovuto trovare risposta. È straordinario come, anche adesso che il problema della «russofobia» e la violazione dei diritti dei russi sono diventati in pratica la massima priorità nell'agenda del Cremlino, tutto resti a livello di una demagogia spudorata e ipocrita dietro alla quale manca qualsiasi provvedimento costruttivo. [...] L'attuale regime preferisce parlare senza sosta di russi oppressi senza far nulla per aiutarli. (pp. 86-87)
  • Quelli come Putin sono nostalgici dell'URSS perché per loro equivaleva a uno status di superiorità inaccessibile a chiunque. Oggi, a dispetto di tutte le storture del sistema, uno specialista informatico di un paesino siberiano può diventare miliardario senza bisogno del permesso o del sostegno dello Stato, e andarsene in Costa Azzurra a bordo del suo jet privato. All'epoca c'era una barriera che valeva per tutti tranne che per quelli come Putin, il cui unico scopo era di impedire agli altri di fare qualunque cosa. (p. 89)
  • Con tutta la sua ipocrita esaltazione dei lavoratori, la società sovietica in realtà tracciava un confine molto netto: chi proseguiva gli studi era al vertice, mentre gli altri erano di seconda categoria. Molto probabilmente questo avvenne per incentivare tutti, qualsiasi fossero le loro origini, a tentare la strada degli studi universitari, il che non era una brutta idea. [...] Nella pratica, però, la cosa non funzionò bene. La conseguenza a lungo termine fu una catastrofica caduta del prestigio di qualsiasi professione associata al lavoro manuale, anche la più specializzata. Essere un PTUšnik, ovvero lo studente di una scuola professionale, divenne sinonimo di asino. Era normale che un professore dicesse a un ragazzo: «Petrov, tu sei un idiota e puoi aspirare solo alle professionali». L'implicazione era che, dopo essere diventato idraulico, elettricista o operaio, Petrov sarebbe entrato nell'esercito dei perdenti e degli alcolizzati privi di prospettive nella vita. (p. 90)
  • [...] in URSS era praticamente contro la legge ammettere gli ebrei alle facoltà di matematica. [...] Secondo una barzelletta tipica dell'epoca, alle selezioni per l'ingresso all'Università statale di Mosca gli esaminatori non vogliono ammettere un candidato ebreo, quindi lo bersagliano di domande sempre più difficili, ma lui riesce a rispondere a tutte, quindi alla fine la commissione si riduce a chiedere: «Come spiega il fatto che Lev Tolstoj fosse capace di ricordare cose accadute quando aveva solo quaranta giorni?». «La cosa non mi sorprende. Io ricordo cose successe quando avevo otto giorni.» «E cosa ricorda?» «Ricordo un anziano ebreo con la barba e i peot che è arrivato e mi ha tagliato via la possibilità di fare l'università.» (pp. 102-103)
  • Ho già menzionato il decennio che passò alla storia come «i maledetti anni Novanta», un'espressione che vorrei spiegare, perché rappresenta una delle principali ragioni per le quali Putin continua a essere popolare in una fetta della società e perché il suo nome è associato alla «restaurazione dell'ordine» anche se, con lui al potere, l'amministrazione dello Stato è in totale degrado. [...] Ciò che rendeva «maledetti» gli anni Novanta era il fatto che in ogni centro abitato tutti sapessero esattamente chi fosse a capo della criminalità e quali gang fossero operative. In qualche modo, il crimine organizzato compariva dal giorno alla notte e assumeva all'istante un ruolo cruciale nella vita pubblica. [...] Nell'esatto istante in cui l'Unione Sovietica era crollata, lasciando il paese senza un unico centro di potere noto e accettato da tutti, le persone avevano scoperto all'improvviso che a comandare adesso erano le gang che stazionavano ogni sera al chiosco degli spiedini in fondo alla strada. [...] All'improvviso venne fuori che aver trascorso un periodo in carcere era qualcosa di positivo. In precedenza si sarebbe detto: «È stato sette anni in prigione. È una causa persa. Stagli lontano». Adesso, per qualche imperscrutabile ragione, la frase era diventata: «È stato sette anni in prigione, quindi ha contatti giusti e risolverà i nostri problemi». (pp. 106-107)
  • Sono convinto che prima o poi ogni cosa andrà al suo posto e tutto finirà bene, ma dobbiamo guardare in faccia la realtà che dai primi anni Novanta ai Venti del Duemila la vita di una nazione è stata stoltamente sprecata in un'epoca di degenerazione e di incapacità di stare al passo. C'è una buona ragione se le persone come me, e quelle di cinque o dieci anni più vecchie, sono chiamate la generazione maledetta o perduta. Noi siamo quelli che avrebbero dovuto beneficiare della libertà politica e di mercato, ci saremmo potuti adattare in fretta a un nuovo mondo, in una maniera del tutto fuori dalla portata delle generazioni precedenti. Il 15 per cento di noi sarebbe dovuto diventare imprenditore, «come in America». Solo che la Russia non ce l'ha fatta. Nessuno dubita che adesso viviamo meglio che negli anni Novanta, ma, perdonatemi, sono passati trent'anni. Anche in Core del Nord le persone vivono meglio oggi che trent'anni fa. [...] Il confronto non dovrebbe essere tra come eravamo negli anni Novanta e come siamo adesso, ma tra come siamo adesso e come avremmo potuto essere al tasso di crescita medio globale. Avremmo ottenuto senza fatica quello che abbiamo visto ottenere da Cecoslovacchia, Germania dell'Est, Cina e Corea del Sud. Questo confronto non può che deprimerci. [...] Perché non ha funzionato? Perché i polacchi e i cechi la sfangano e noi no? Ho una risposta semplice, che, per quanto tecnicamente significhi rispondere a una domanda ponendone altre, aiuta ogni pezzo del rompicapo ad andare al suo posto: Leszek Balcerowicz, l'architetto delle riforme polacche, è forse diventato un multimilionario come il nostro Anatolij Čubajs? La famiglia di Václav Havel, il leader post-comunista ceco, ha forse comprato una villa da 15 milioni di dollari a Saint-Barthélemy, l'«isola dei milionari», e possiede altri beni per un totale di centinaia di milioni? Come mai in Russia quasi tutti i giovani democratici, riformatori e sostenitori del libero mercato degli anni Novanta sono diventati favolosamente ricchi e oggi hanno cambiato le loro posizioni diventando pilastri conservatori dello Stato? In Estonia o Ungheria, Slovacchia o Germania non è successo niente del genere. [...] Dovremmo ammettere che in Russia non c'è mai stato al potere un democratico, nel senso di una persona con una mentalità genuinamente liberale e democratica. (pp. 123-124)
  • Eltsin era privo di una sincera motivazione ideologica e spinto unicamente dalla sete di potere. Era senz'altro un individuo dal grande talento, un politico di enorme intuito che percepiva l'umore popolare e sapeva come sfruttarlo. Era pronto, all'occasione, ad agire con decisione e audacia, ma sempre negli interessi di se stesso e del proprio potere più che in quelli del popolo o della nazione. (p. 126)
  • Dall'inizio alla metà degli anni Novanta non ero solo un sostenitore di Eltsin, ma uno di quelli che appoggiava senza riserve il leader in ogni sua iniziativa. Strano a dirsi, non ero tanto infatuato della sua persona o dei membri della sua squadra. Semplicemente non potevo soffrire nessuno degli altri politici. Il mondo senza chiaroscuri della politica dell'epoca comportava il fatto che o eri a favore di Eltsin e guardavi avanti, a dispetto degli errori, delle difficoltà e delle decisioni impopolari, oppure puntavi su quelle teste di rapa, rimasugli dell'Unione Sovietica, la cui unica idea era: «Torniamo indietro. Quelli erano bei tempi». Ebbene, per me non erano bei tempi, e mi faceva impazzire che le persone cercassero di convincermi che così era. Mi fa impazzire tuttora. Negli anni Novanta, certi cretini cercavano di convincermi che mia madre non aveva dovuto alzarsi alle cinque del mattino per comprare la carne, e che io non avevo dovuto fare un'ora di fila per acquistare il latte. (p. 127)
  • In realtà, è probabile che ciò che provo per Eltsin non sia il genere di odio che si può nutrire verso un vivo, ma piuttosto una complessa mescolanza di avversione, rimpianto e sgomento. Rimpianto per la meravigliosa occasione che il mio paese e i miei connazionali si sono lasciati scappare di vivere la normale e civile vita europea che meritiamo. Le aspirazioni, le speranze, la fiducia, compresa la fiducia cieca di persone ingenue e confuse com'ero io in gioventù, sono state tradite e cinicamente svendute. Sono state barattate con le trame patetiche e corrotte – e i guadagni occulti – della famiglia Eltsin, con le garanzie della loro sicurezza. Il primo decreto di Putin riguardava aiuti materiali e garanzie di immunità legale per «la famiglia del primo presidente della Russia». A questo furono ridotti i grandi eventi storici che andarano dalla metà degli anni Ottanta all'inizio dei Novanta. (pp. 130-131)
  • Un'occhiata fredda e obiettiva all'era Eltsin ci pone di fronte a una verità triste e sgradevole, che spiega l'ascesa di Putin al potere: nel governo della Russia post-sovietica non ci sono mai stati democratici, e tanto meno liberali che sostenessero la libertà e si opponessero ai conservatori desiderosi di resuscitare l'Unione Sovietica. Tutti loro – con rare eccezioni come Egor Gajdar e Boris Nemcov, che si sono mostrati incorruttibili e hanno trovato la forza di ritirarsi (Gajdar) o di resistere alla reincarnazione dell'autoritarismo (Nemcov) – sono stati un'orda scellerata di ladri e mascalzoni. Per un certo periodo sono stati stimolati dalla retorica democratica, ma sempre nell'ottica di stare, nella cornice delle battaglie politiche dell'epoca, dalla parte del Cremlino, delle autorità. Per loro contava solo questo. Questo e, soprattutto, le opportunità di arricchirsi. (pp. 131-132)
  • [...] il regno di Eltsin non aveva nulla a che fare con le riforme. Era inutile aspettarsi da lui una qualsiasi visione o una crescita economica. Era solo un vecchio alcolizzato con attorno una manica di cinici imbroglioni che si dedicavano alla loro consueta attività di riempirsi le tasche. [...] L'entourage di Eltsin era una banda di farabutti, alcuni dei quali si definivano statisti patriottici, mentre altri si descrivevano come riformatori. I riformatori rubavano di più, ma avevano un aspetto più presentabile. (pp. 138-139)
  • Durante la mia convalescenza in Germania, inizialmente avevo deciso di tornare a Mosca il 15 dicembre, in tempo per festeggiare il nuovo anno e il Natale ortodosso a casa. Lo avevo dichiarato nel corso di una delle prime interviste dopo essere uscito dall'ospedale. In realtà, uno pseudoannuncio sul mio rientro in Russia dopo che mi fossi rimesso dall'avvelenamento era già stato fatto mentre ero in terapia intensiva: in occasione di una visita, Yulia mi stava leggendo ogni sorta di richieste urgenti da parte dei miei colleghi e io, dal letto e agghindato com'ero di cavi e tubi, rispondevo.
    «Kira vuole sapere se dobbiamo rispondere al "New York Times". Chiedono se tornerai.»
    «Che domanda stupida. Certo che tornerò.»
    «Quindi deve rispondere?»
    «Sì, ma senza dire che l'ho definita una domanda stupida.» (p. 141)
  • L'esperienza mi ha insegnato che i problemi più gravi sorgono da cose alle quali non hai pensato: credenziali per accedere al conto corrente online, autorizzazioni e password per le varie applicazioni e i dispositivi che usi tutti i giorni. Quando sei in carcere, sapere che la tua famiglia sta bene rappresenta il 99 per cento della tua pace mentale e non voglio dovermi preoccupare che mi moglie non possa ritirare soldi dal mio conto a causa di una stupida regola bancaria che prevede che io dia il permesso scritto via e-mail. I giornali di tutto il mondo potranno anche riportare la notizia del mio arresto e della mia detenzione, ma il direttore della banca risponderà sempre: «Sono desolato, non c'è nulla che possiamo fare. Il titolare ci deve inviare un'e-mail o usare la nostra comoda app.» (p. 147)
  • Ormai da molto tempo ho smesso di tentare di analizzare e prevedere il comportamento di Putin e del Cremlino: c'è in gioco troppa irrazionalità. Putin è al potere da oltre vent'anni e, come accade a qualunque altro leader della storia che abbia governato così a lungo, ha la testa piena di ossessioni messianiche, tutta quella roba in stile «Niente Putin, niente Russia» proclamata dal podio della Duma. A dispetto di ciò che gli analisti poltici scelgono di scrivere, poi, anche il vero equilibrio di potere fra i più assortiti gruppi del Cremlino è ignoto, quindi è inutile cercare di calcolare quale potrebbe essere la «loro» prossima mossa. Possiamo fare solo quello che riteniamo giusto. (p. 149)
  • Facevo l'avvocato per una grande società moscovita di sviluppo immobiliare. Per concludere qualcosa nel settore edilizio nella Mosca del sindaco Lužkov alla fine degli anni Novanta, bisognava prima rimunerare lui, poi il suo vice, il leggendario Vladimir Resin, che ogni persona onesta stava chiedendo di sbattere in carcere, tanto era sfacciata e cinica la sua abitudine di accettare mazzette. Per ironia della sorte, io che ho indagato con tanto rigore sugli squallidi maneggi di Regin in ogni fase della sua carriera adesso sto scrivendo queste parole dal carcere mentre lui, a ottantacinque anni, siede bello comodo nella Duma statale come rappresentante del partito Russia Unita di Putin. (p. 178)
  • [...] poche cose meritano l'incenerimento con un lanciafiamme più di un gruppo di avvocati ubriachi consapevole che qualche scappatoia legale permetterà loro di passarla lisca dopo aver fatto i gradassi e aver spadroneggiato sulla gente comune che non conosce la legge ma ha il diritto dalla sua parte. (p. 183)
  • È un logoro cliché parlare della chimica tra le persone, ma credo davvero che esista. Così come l'amore a prima vista, e io ne sono la prova vivente. Adesso, mentre sto scrivendo queste parole, io e Yulia siamo insieme da ventiquattro anni. Di tanto in tanto, persone più giovani, o giornalisti ansiosi di trovare una domanda originale per la loro intervista, mi chiedono qual è il segreto di un matrimonio riuscito. Io davvero non ne ho idea. Una grossa parte del successo è pura fortuna. Sono stato fortunato a incontrare Yulia. Altrimenti, forse adesso sarei una persona molto diversa: divorziato tre volte, single e ancora in cerca di qualcuno. (p. 187)
  • In Russia, se sei attivo in politica, e tanto più se non supporti il regime, possono arrestarti in qualsiasi momento. Ti perquisiranno la casa, ti confischeranno beni. Requisiranno i telefoni dei tuoi figli e il computer di tua moglie. Durante una perquisizione avevano una gran voglia di filarsela con il nostro televisore. Ma da Yulia non ho mai sentito una parola di rimprovero. Anzi, tra noi due, è lei ad avere le opinioni più radicali. È sempre stata immersa nella politica. Odia le persone che hanno preso il potere nel nostro paese, probabilmente ancor più di me. E questo mi incoraggia a fare quello che faccio. (pp. 187-188)
Boris El'cin consegna l'emblema presidenziale a Vladimir Putin
  • Nel 1999, quando Vladimir Putin salì al potere, molti lo trovarono fantastico: era giovane, a differenza di Eltsin non beveva e sembrava dire tutte le cose giuste. Questo non fece che consolidare la speranza che, finalmente, tutto sarebbe andato a posto. Tale narrazione mi irritava davvero tanto. Non mi piaceva affatto l'idea di Putin come «successore»: io volevo un'autentica elezione presidenziale, con candidati in competizione tra loro. Se Putin fosse stato un comunista che aveva fatto campagna elettorale e aveva vinto onestamente, mi sarei arrabbiato molto ma avrei accettato il risultato. Invece, Putin era stato imposto alla Russia per ricompensarlo della sua fedeltà e disponibilità a fornire immunità legale all'ex presidente e alla sua famiglia. (p. 191)
  • La maggior parte delle persone si iscriveva a Jabloko perché ne ammirava il leader, Grigorij Javlinskij. Io non condividevo la profondità di quei sentimenti. Se durante il mio precedente entusiasmo per Eltsin non sopportavo Javlinskij e lo consideravo uno che gli toglieva voti, adesso il mio atteggiamento era più sfumato e avevo iniziato a rispettarlo. Lo ritenevo un politico perbene e onesto. Gli ex burocrati del Partito comunista che si erano allontanati di soppiatto dagli uffici del Soviet e si erano insinuati in quelli della Federazione Russa erano un manipolo di ladri, mentre Javlinskij era un uomo con dei valori. Aveva un'idea, che difendeva, e nel complesso il partito agiva in modo coerente; non c'era un gran desiderio di fare qualcosa di decisivo, quindi si preferiva lanciarsi in dibattiti intellettuali, ma almeno i militanti credevano davvero in ciò che dicevano. (p. 193)
  • Con il tempo iniziai a capire che l'unanime ammirazione per Javlinskij era così forte da assumere talvolta le sembianze del culto della personalità. I leader del partito e lui stesso erano incontestabili e la gerarchia osservata con rigore. Guardavano ai nuovi venuti con circospezione, nell'eventualità che qualcuno arrivasse e cercasse di impadronirsi del partito! Quanto a me, ero considerato con particolare sospetto perché non corrispondevo alla loro immagine del classico attivista politico: facevo la doccia tutte le mattine e avevo un lavoro. Mi avranno chiesto forse cento volte per quale motivo stessi lì sebbene loro avessero pochissimi soldi (o non ne avessero affatto). Tuttora non riesco a scrollarmi di dosso questo pregiudizio. Le persone pensano sempre ci sia una trappola. Dopotutto, se hai una buona istruzione e un buon lavoro, perché dovresti metterti contro Putin? Perché fai quelle inchieste? Forse ricevi le soffiate dalle stanze del Cremlino in concorrenza tra loro o magari sei proprio un tirapiede del Cremlino? O forse sei un lacchè dell'Occidente? Da sempre la gente inventa teorie cospirazioniste su di me per cercare in qualche modo di spiegare il mio inspiegabile interesse per la politica. Se oggi lo trovo divertente, ai tempi di Jabloko era seccante. Il fatto che mi considerassero un enigma indicava che non avevano fiducia nella propria forza. (pp. 193-194)
  • Nel 2001 nacque Dasha. Diventare padre ha trasformato la mia vita in modi inaspettati. Io e Yulia volevamo avere figli e io fui felicissimo quando nacque la nostra bambina, però accadde anche altro. Come chiunque fosse cresciuto in Unione Sovietica, non avevo mai creduto in Dio, ma guardando Dasha e osservandola crescere non riuscivo a fare pace con il pensiero che fosse solo una questione di biologia. Questo non toglieva niente al fatto che ero e resto un grande sostenitore della scienza, ma in quel momento capii che, da sola, l'evoluzione non era sufficiente. Doveva esserci di più. Da ateo irriducibile, diventai gradualmente una persona religiosa. (p. 196)
  • Immaginiamo che, in un universo parallelo, tutte le peggiori paure dei leader di Jabloko fossero diventate realtà e, all'inizio degli anni Duemila, io avessi assunto la guida del partito. In quel caso, Jabloko avrebbe cambiato volto. I suoi iscritti sarebbero rimasti i simpatici secchioni di sempre, ma sarebbero stati anche molto coraggiosi, perché io credo fermamente che le cose migliori sulla Terra siano state create da secchioni coraggiosi. [...] I secchioni di Jabloko erano vigliacchi e restii alla sperimentazione. Il mondo era cambiato, ma loro erano rimasti fermi. C'era stato un tempo in cui Jabloko era una fazione all'interno della Duma e il partito non riusciva a vedersi in modo diverso. Quando non superarono lo sbarramento del 5 per cento, mossero accuse di abuso di potere e brogli elettorali. Erano indignati e affermavano che gli era stata rubata la vittoria, perché in realtà avevano ottenuto molti più voti. Che le elezioni fossero clamorosamente truccate già allora era vero, ma Jabloko – dal canto suo – non aveva mosso un dito per farsi votare. Pian piano si rassegnarono all'idea che non avrebbero mai potuto vincere. Si convinsero ce la loro fosse una lotta impari contro la gigantesca, ostile Russia in cui i secchioni non piacevano a nessuno; iniziarono a temere i loro elettori e mascherarono la paura con un esagerato elitarismo con connotazioni intellettuali. Inutile dire che alla gente non importava di questo e il partito iniziò a perdere il poco sostegno che gli era rimasto. (p. 198)
  • Io ero convinto che, per contrastare Putin, fosse necessario un'ampia coalizione. All'epoca questi nazionalisti organizzavano dimostrazioni annuali a Mosca, le cosiddette «Marce russe», che erano autorizzate solo alla periferia della città ma richiamavano comunque diverse migliaia di persone. I dimostranti venivano dispersi senza pietà dalla polizia e i primi arresti di massa si verificarono in quelle occasioni, non durante le proteste dei liberali o dei democratici. Stabilii che se io, con i miei valori democratici, sostenevo il diritto di libera assemblea, allora per coerenza dovevo supportare anche quello degli altri. Iniziai dunque ad aiutarli a organizzare le loro parate e, per solidarietà, vi presi parte in diverse occasioni. Su internet potete trovare foto di me in piedi davanti a una bandiera nera, bianca e gialla, che viene spesso usata come sfondo per le interviste in cui mi chiedono: «Lei si considera un nazionalista?». [...] In qualunque normale sistema politico svilupato, io ovviamente non avrei aderito al partito nazionalista, ma considero folli e controproducenti i tentativi di screditare il movimento nel suo complesso. Chiunque organizzi veri e propri pogrom deve essere chiamato a risponderne, questo è certo, ma la gente deve poter manifestare ed esprimere le proprie opinioni, seppure sgradite. Queste persone esistono e, per quanto si decida di ignorarle, non se ne andranno. E non se ne andranno i loro sostenitori. A dirla tutta, indebolire i nazionalisti non farà che rafforzare Putin. (pp. 199-200)
  • Quando parlo dei partiti politici russi con gli occidentali, suscito sempre perplessità. Loro sono abituati a muoversi in uno spettro politico chiaro: destra, sinistra, socialdemocrazia, liberali. Queste categorie, però, non si applicano alla Russia. I nostri comunisti non sono «di sinistra» in senso classico: non sostengono le minoranze e non mettono un grammo di energia nelle lotte per aumentare i salari minimi. I comunisti russi sono di gran lunga più conservatori persino della destra americana. Il nostro paese ha un panorama politico del tutto diverso. Argomenti come la legalizzazione delle armi o il divieto di aborto, che suscitano accesi dibattiti nel mondo occidentale, sono pressoché privi di interesse per gli elettori russi. La nostra prima priorità deve essere la libertà di parola, la trasparenza elettorale e il rispetto dei diritto umani. (p. 201)
Grigorij Javlinskij
  • Senza dubbio ho imparato tanto e sono anche grato a Grigorij Javlinskij per avermi insegnato svariate importanti lezioni. Però non riuscivo ad accettare il fatto che Jabloko stesse scegliendo di autoghettizzarsi dalla vita pubblica russa. Io sognavo che il nostro sarebbe diventato il partito di maggioranza. Volevo veder apparire un politico che intraprendesse tutti i progetti necessari e interessanti, e collaborasse direttamente con il popolo russo. Se si fosse presentata una persona così, sarei corso a offrirgli la mia collaborazione. Attesi a lungo, poi un giorno capii che quella persona potevo essere io. (p. 203)
  • Sembra vigere la regola per cui, se al comando c'è un ex procuratore o un funzionario dell'FSB, la corruzione sarà due volte più diffusa. (p. 219)
  • La Russia è strutturata in modo che i rappresentanti di diversi ministeri federali sono letteralmente ovunque. Oltre al governatore, una regione ha un «ispettore capo federale» e rappresentanti di diversi ministeri federali. Qualsiasi decisione il governatore prenda può essere cassata da un funzionario che risponde direttamente a Mosca. La cosa può raggiungere picchi di assurdità. Per esempio, negli uffici del governo regionale di Kirov non c'era il wi-fi. Io proposi di metterlo. La saga meriterebbe un capitolo a parte, per un intermezzo comico. Solo ottenere che la mia proposta fosse discussa richiese cinque riunioni molto partecipate con il governatore, e anche allora il wi-fi non fu installato. (p. 219)
  • Lavorare a Kirov rappresentò nel complesso un'esperienza istruttiva, ma sconfortante. Ne ricavai una discreta consapevolezza di come funzionano le cose. Scoprii che non c'è modernizzazione possibile in una nazione autoritaria, che non c'è modernizzazione possibile neanche in una sola regione di una nazione del genere. Le persone giovani, attive, ambiziose arrivano con la voglia di sistemare e far funzionare tutto, ma vengono risucchiate nella palude del sistema. Mi resi conto che in un ambiente corrotto ti trovi tu stesso obbligato a comportarti in modo corrotto, anche se vorresti solo essere d'aiuto. (pp. 219-220)
  • [Sull'Università Yale] In Russia ero stato impegnato a combattere la corruzione nelle aziende statali. Ora, di colpo, mi trovavo seduto di fianco a una sudafricana che stava combattendo l'AIDS e l'HIV. Si chiamava Thembi Xulu, e faceva discorsi così interessanti sul suo lavoro che mi chiedevo se non fosse più importante del mio.
    C'era anche un tipo indonesiano che era a capo di un'organizzazione giovanile musulmana. Una volta gli chiesi: «Quanti membri avete?» aspettandomi che dicesse tipo «duecento persone». Lui invece rispose: «Be', non siamo l'organizzazione giovanile più grande del mondo. Più o meno dodici milioni».
    Un borsista proveniente dalla Tunisia non faceva che lamentarsi con me del fatto che stare all'opposizione era terribilmente difficile. «In Russia» diceva «avete YouTube, Facebook e Twitter, ma da noi in Tunisia è tutto bloccato.» Lavorare dalla Francia era l'unico modo in cui poteva condurre la sua militanza.
    Erano gli ultimi giorni del 2010, e nel giro di un mese scoppoà la Primavera araba e il regime dittatoriale tunisino cadde. Per quanto potesse essere vista come un'esperienza limitata al popolo tunisino, considerai comunque importante e utile avere qualche nozione in materia. (pp. 222-223)
  • La Transneft è la più grande società al mondo di gestione di gasdotti e oleodotti, e sposta il petrolio in tutta la Russia. Inutile dire che è di proprietà dello Stato. A metà del primo decennio del Duemila, intraprese l'enorme progetto di costruire un oleodotto che andava dalla Siberia orientale all'oceano Pacifico. È garantito che qualsiasi cantiere di quelle dimensioni comporterà prima di tutto dosi massicce di appropriazione indebita. Anche se verà completato, un megaprogetto del genere non si concluderà in tempo; la realizzazione sarà scadente e sprezzante dei regolamenti; e una grossa getta del budget finirà nelle tasche di qualcuno. Ed è proprio ciò che accadde. La cosa era evidente a tutti, governo compreso, tanto che nel 2008 la Transneft fu sottoposta a un controllo della Corte dei conti, l'organo statale di revisione contabile: scandalosamente, i risultati furono tenuti segreti su richiesta della stessa Transneft.
    Smossi mari e monti per mettere le mani su quel rapporto segreto e alla fine ci riuscii. Rimasi sconcertato. Le sue 150 pagine esponevano chiaro e tondo, con tanto di cifre e analisi, il fatto che poteva essere stato saccheggiato tutto il saccheggiabile. I costi di costruzione erano stati gonfiati più volte, inaffidabili società offshore erano state scelte come appaltatrici, gare e aste erano state condotte con irregolarità che avevano dell'incredibile, e la relativa documentazione era stata distrutta l fine di occultare l'accaduto. Non si trattava di una teoria di esperti o di una serie di post su un blog, ma di un rapporto ufficiale della Corte dei conti. La somma totale intascata nel corso del progetto dell'oleodotto si aggirava attorno ai 4 miliardi di dollari, «1100 rubli sottratti a ogni adulto di Russia», come scrissi all'epoca su LiveJournal. (pp. 223-224)
  • [Sulla Fondazione Anti-corruzione] Il principio cardine della nostra organizzazione era la trasparenza, che per me era importante fin dall'inizio per due ragioni. La prima, perché le persone sarebbero state più disponibili a donare se avessero saputo come venivano spesi i loro soldi; la seconda, perché volevo con tutto me stesso essere diverso dallo Stato. Il governo spendeva le nostre tasse senza darci spiegazioni, noi cittadini non avevamo voce in capitolo sulle priorità di bilancio e non sapevamo nemmeno come venissero distribuiti esattamente i soldi. [...] Io volevo fare le cose in modo diverso. Pubblicavo i dettagli del mio reddito personale. Pubblicavo la fonte dei finanziamenti dell'organizzazione. Tutti conoscevano l'aspetto di mia moglie e dei miei figli. Mandandomi soldi, le persone inviavano anche un chiaro segnale alle autorità: avevano deciso di farmi una donazione perché vedevano quello che facevo e sapevano come spendevo il denaro, mentre i funzionari governativi tenevano tutto nascosto e spesso rubavano. [...] Il secondo importante principio era la «normalità». Il Cremlino tenta da anni di marginalizzare il nostro movimento e relegarlo nel sottobosco, trasformandoci nell'equivalente moderno dei dissidenti sovietici. Io nutro un profondo rispetto per quei dissidenti, che sono stati degli eroi; nel 2012, però, la gente comune non voleva essere un eroico dissidente, perché è pericoloso e spaventoso. Tutti noi volevamo solo essere normali. E normali lo eravamo: persone normali con una normale vita lavorativa. (pp. 228-230)
  • Una delle cose peggiori della detenzione è essere tagliati fuori da tutto: la vita va avanti a pieno regime, mentre tu sei bloccato tra quattro mura e non ricevi nemmeno le notizie in tempo reale. (p. 234)
  • L'anno 2012 segnò l'avvento nella mia vita di uno schema preciso, un inarrestabile circolo vizioso che mi avrebbe accompagnato per molti anni a venire: manifestazione di protesta, arresto, manifestazione di protesta, arresto. Era sgradevole, certo, ma non mi avrebbe fermato. Il Cremlino se ne rese presto conto, per cui in dicembre istruì contro di me quattro nuovi procedimenti penali in una volta sola. Le accuse erano furto di legname nella regione di Kirov; appropriazione indebita di fondi dell'azienda francese Yves Rocher; furto di 100 milioni di rubli al partito Unione delle forze di destra; e, la mia preferita, appropriazione indebita dei fondi di una distilleria a Kirov. A quel punto correvo il rischio di passare in prigione diversi anni. Le ultime due accuse non erano troppo preoccupanti e non arrivarono nemmeno a processo. Le prime due erano inquietanti perché oltre a me venivano implicate altre persone innocenti. La causa legata alla Yves Rocher mi turbava particolarmente perché il coimputato era Oleg, il mio fratello minore. (p. 236)
  • I processi contro di me rappresentano un esempio perfetto di come funziona il sistema giudiziario in Russia. In pratica, architettano accuse e disegnano vittime strada facendo. Di solito è difficile spiegarlo a persone che vivono in paesi rispettosi del diritto. Non è possibile, dicono, inventarsi di sana pianta trenta faldoni di documenti. Ecco, gli investigatori russi ci riescono. (p. 237)
  • Intentando cause contro di me, il Cremlino aveva due obiettivi. Il primo era impedirmi di essere attivo in politica. Non è per niente facile comportarsi come al solito se sei in carcere, e anche una sospensione della pena rende la vita molto più complicata. Se hai una condanna penale, non puoi candidarti a una posizione politica. Il secondo obiettivo era danneggiare la mia reputazione. Avevano bisogno di rivolgermi accuse non legate alla politica ma alla criminalità comune: «Ah, sì? Pensa di poter combattere la nostra corruzione? Be', basta dire che lui stesso è corrotto!». (p. 237)
  • Per anni il regime si era dato da fare per creare l'illusione che esistesse solo Russia Unita e i partiti di opposizione sistemici, mentre l'opposizione non sistemica languiva ai margini della politica senza rappresentare nessuno. Anche se non diventai sindaco, la nostra campagna dimostrò che erano tutte bugie. In Russia c'è un sacco di gente che non appoggia Putin e i suoi candidati, che desidera una vera politica e delle vere elezioni. Se mobilitate in modo efficace, queste persone sono pronte a partecipare attivamente alle campagne elettorali, a lavorare per le sedi dei candidati, a fare volontariato. Era ovvio che, se ci fosse stato permesso di partecipare liberamente alle elezioni, saremmo diventati un partito grande e potente, e avremmo potuto competere con Russia Unita per la maggioranza in Parlamento. Io ne ero la prova vivente: una persona normale senza soldi, senza il sostegno dei media o degli oligarchi, che era stata persino rinchiusa in carcere per parte della campagna. In televisione, nel corso di un processo, ero stato accusato di appropriazione indebita e nessuno ci aveva creduto. A dispetto di tutte queste falsificazioni, avevo guadagnato il secondo posto nella corsa a sindaco della città più grande della Russia. E sapevo per certo che ce n'erano altri come me. Molti altri.
    Lo sapeva anche il Cremlino. Non mi permise mai più di partecipare a un'elezione. (pp. 247-248)
  • L'accusa contro di noi era persino più ridicola di quella del primo processo, ma nel 2014 il sistema giudiziario era ormai stato perfettamente oliato da Putin e ubbidiva a ogni suo ordine. I pubblici ministeri accusavano me e Oleg di aver rubato 26 milioni di rubli alla società di cosmetica francese Yves Rocher con un presunto sistema di costi gonfiati per i servizi di logistica. L'analogia con il precedente caso montato ai miei danni e riguardante la Kirovles era evidente. Di nuovo veniva depinto come frode quello che era un normale accordo commerciale, però, mentre l'ultima volta la polizia aveva estratto dal cilindro una presunta vittima – ovvero Vjačeslav Opalev, direttore di Kirovles, che era stato ben felice di sfidarmi in tribunale –, qui di vittime non ce n'erano. [...] Il rappresentante di Yves Rocher chiamato a testimoniare (dalla procura!) affermò di non aver alcuna accusa da muovere nei nostri confronti, il che però lasciò indifferente la corte. Gli ordini erano chiari: dovevamo essere dichiarati colpevoli, quindi la macchina di Putin fece del suo meglio. (pp. 249-250)
  • Gli arresti domiciliari sono una forma di punizione particolarmente insidiosa: non sei in carcere, quindi nessuno simpatizza per te, ma in realtà non puoi fare quasi nulla. (p. 250)
  • Acquisimmo la totale padronanza di YouTube con il nostro rapporto sul procuratore generale Jurij Čajka. Quella era una storia che non parlava solo di corruzione, ma anche dei legami tra la procura e il crimine organizzato.
    La prima cosa che scoprimmo fu che il figlio maggiore del procuratore generale, Artëm, viveva (per usare un eufimismo) al di sopra dei propri mezzi. Cose come queste erano piuttosto comuni. Scoprimmo che possedeva un enorme hotel di lusso e qualche villa in Grecia nonché una casa in Svizzera, e aveva una serie di conti in banche estere. Più avanti venimmo a sapere che attorno al procuratore girava tutta una mafia. Artëm era proprietario dell'albergo insieme alla moglie del vice di suo padre. Lei, a sua volta, aveva investito in affari con le mogli di due criminali di primo piano della regione di Krasnodar, appartenenti alla cosiddetta «banda degli Tsapki». Quest'ultima aveva tenuto l'intera città nella morsa del terrore per decenni commettendo furti, estorsioni, stupri e omicidi. Degli omicidi si parlava in tutto il paese: sui notiziari veniva raccontato come la gang avesse fatto irruzione nella casa di un uomo d'affari locale, uccidendo le quattordici persone che vi aveva trovato, compreso un neonato, per poi bruciare i corpi. Per anni la procura aveva protetto la banda, rifiutando di perseguirla.
    Quando scoprimmo tutte queste cose, restammo a dir poco scioccati. Ma poi venne fuori che lo stesso figlio del procuratore generale era implicato in un omicidio. Aveva voluto impossessarsi del sistema di trasporto fluviale siberiano e portarlo sotto il suo controllo. Il direttore del trasporto fluviale aveva dichiarato in un'intervista che Artëm aveva cercato di ricattarlo e spaventarlo; due giorni dopo, era stato trovato impiccato nel suo garage. Non era stato aperto alcun procedimeno penale. Era stato liquidato come suicidio, anche se l'autopsia aveva dimostrato che le mani dell'uomo erano legate e i segni sul collo potevano essere stati causati solo da una morte violenta. (pp. 263-264)
  • [Su Igor' Šuvalov] Non c'è assolutamente nulla di normale nel suo stile di vita. Avevamo già scoperto che era proprietario di un palazzo a Mosca, il genere di residenza in cui ti aspetteresti di veder vivere un conte; dieci appartamenti in uno sfarzoso grattacielo di epoca staliniana con vista sul Cremlino; un enorme appartamento a Londra del costo di 11 milioni di sterline situato sulle rive del Tamigi; una villa in Austria; e una quantità di Rolls-Royce.
    Eppure, quella nuova indagine lasciò di sasso perfino noi. Sembrava che Šuvalov amasse allevare corgi, e che anche loro vivessero nel lusso. Scoprimmo il jet con cui si spostava per affari, ne studiammo i piani di volo e ci rendemmo conto che non lo usava solo il vice primo ministro, ma anche i suoi cuccioli che andavano a partecipare a concorsi canini internazionali. (p. 264)
Dmitrij Medvedev
  • Tutti prendevano in giro Medvedev quando era presidente. Si fingeva un liberale, pronto ad accogliere ogni nuova tecnologia, i quotidiani, internet. Apriva profili su Twitter e Instagram, una cosa che, per un funzionario russo, era come volare sulla Luna. [...] L'unica «conquista» rimasta dopo i quattro anni di Medvedev al potere è stata che la milizia ha cambiato nome in «polizia». (p. 280)
  • Venne fuori che Medvedev non era solo uno stupido sempliciotto, ma un individuo corrotto fino al midollo. Usava reti di associazioni benefiche per spillare soldi agli oligarchi e intestarsi case di lusso. Noi le perlustrammo tutte lanciando il nostro drone da un nascondiglio, e poi mostrammo nei minimi dettagli come viveva Medvedev. Scoprimmo che aveva un'enorme tenuta sul Volga, nell'antica città di Plës. Al centro di laghetto di questa proprietà aveva fatto costuire una casetta per le anatre. Non so perché il nostro pubblico si affezionò tanto a questo dettaglio, ma da allora la papera diventò il simbolo sia dell'indagine sia delle proteste anticorruzione. (pp. 280-281)
  • Sono molto orgoglioso di quello che abbiamo ottenuto. Abbiamo aiutato un'intera nuova generazione a interessarsi alla politica. Sono giovani arditi, che sanno mostrare iniziativa e sono capaci di organizzarsi: sono gravemente insoddisfatti di quello che sta succedendo nel paese e pronti a manifestare per ciò in cui credono. (p. 282)
  • Nell'estate del 2019 mettemmo alla prova l'idea del voto strategico con le elezioni della Duma di Mosca. Io non potei candidarmi, ma molti miei colleghi e sostenitori sì. Annunciammo il nostro piano qualche mese prima delle votazioni e la cosa fu accolta con grande favore. Certo, non tutti erano entusiasti: «Ho sempre votato per Jabloko e continuerò a farlo senza se e senza ma!», «Votare per i comunisti? Per quei cannibali? Mai!». Io spiegavo con calma che, per come eravamo messi, avremmo potuto persino votare per una sedia, anche quella sarebbe stata meglio del candidato di Russia Unita. (p. 287)
  • Non dimenticherò mai una conversazione che ebbi con Boris Nemcov dieci giorni prima che venisse assassinato. Eravamo in tre: Nemcov, un suo collega e io. Nemcov mi spiegò che ero in pericolo, che il Cremlino avrebbe potuto uccidermi perché ero un battitore libero, mentre lui era invulnerabile, perché si muoveva all'interno del sistema: era stato vice primo ministro e, soprattutto, conosceva Putin personalmente e aveva lavorato con lui per anni. Tre giorni più tardi venni arrestato e appena una settimana dopo Nemcov cadde sotto colpi d'arma da fuoco a duecento metri dal Cremlino. A quel punto capii che tutte le discussioni su chi fosse in pericolo o al sicuro non avevano senso. Non possiamo sapere cosa accadrà. Là fuori c'è un pazzo di nome Vladimir Putin e, quando gli salta il ticchio, scrive un nome su un biglietto e ordina: «Uccidetelo». (p. 290)
Memoriale a Boris Nemcov
  • L'assassinio di Nemcov fu un duro colpo per tutti e molti si spaventarono. Persino Yulia, che è una persona incredibilmente coraggiosa, in seguito mi disse di essersi sentita molto a disagio, quella notte, a casa da sola con i ragazzi. Aveva pensato: «Quindi è cominciata? Adesso uccidono gli oppositori? Faranno irruzione armati qui da noi?». Conoscevo Boris e rimasi inorridito come tutti, ma nemmeno in quel momento pensai che la mia vita fosse più a rischio di prima. (pp. 290-291)
  • Ho sempre cercato di ignorare l'idea di poter essere aggredito, arrestato o persino ucciso. Non ho controllo su quanto può accadere e sarebbe masochista trastullarsi in questi pensieri. Dovrei domandarmi: «Quante possibilità ho di sopravvivere fino a sera? Sei su dieci? Otto su dieci? O forse dieci su dieci?». Non è che cerchi di non pensarci, magari chiudendo gli occhi e fingendo che il pericolo non esista. È solo che un giorno ho deciso di non avere paura. Ho soppesato tutto, ho capito qual è la mia posizione e ho lasciato andare. Sono un politico dell'opposizione e so perfettamente chi sono i miei nemici, ma se dovessi temere di continuo che mi ammazzino, non varrebbe la pena vivere in Russia. Dovrei emigrare o smettere di fare ciò che faccio. (p. 291)

Explicit

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Bibliografia

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  • Alexei Navalny, Patriot, traduzione di Teresa Albanese, Sara Crimi e Laura Tasso, Mondadori, Milano, 2024, ISBN 978-88-04-75686-6.

Alberto Pollera (1873 – 1939), militare e antropologo italiano.

Lo Stato etiopico e la sua Chiesa

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Incipit

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Questo libro vede la luce assai tempo dopo che fu compilato: debbo perciò pregare il benevolo lettore di tener presente trattarsi dell'esame di ordinamenti e costumi di un popolo che si avvia rapidamente ad una importante evoluzione civile, la quale, cominciata tardi, si affretta a raggiungere con ritmo sempre più accelerato, miglioramenti e sviluppi che, fino a pochi anni fa, sembrava assurdo sperare.

Citazioni

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  • Gli Abissini identificarono più tardi la regina Macheddà con Azieb, regina di Saba, dando con ciò un seguito apparentemente logico a questa tradizione. [...] la leggenda della regina di Saba non deve in Abissinia aver acquistato valore che in epoca molto posteriore, e verosimilmente quando, con S. Frumenzio e coi santi predicatori e gli Abuna suoi successori, provenienti da Bisanzio, da Alessandria e da Roma, la religione cristiana si diffuse in Etiopia, e ciò perché [...] questi apostoli della fede, avevano ben ragione di credere che l'accennata tradizione potesse giovare, come giovò, ai loro intenti. (pp. 8-9)
  • A noi può sembrare che il concetto etiopico della parentela dinastica colla Vergine sia un po' troppo esagerato ed estensivo, a motivo della enorme distanza di tempo e del gran numero di generazioni trascorse; ma la mentalità etiopica non valuta le cose al modo nostro, perché già nelle piccole questioni interne di stirpe, è abituata a riconoscere legami di consanguineità molto arretrati nel tempo, sul quale non ferma affatto la sua attenzione. (p. 15)
  • Per evitare l'obiezione che nella Bibbia non si fa affatto cenno del trafugamento delle Tavole, che anzi si dice andassero distrutte in Babilonia, i manoscritti etiopici, narrando con assai maggior copia di particolari la leggenda [...], aggiungono che, appena il gran sacerdote Sadok ed il re Salomone si accorsero della scomparsa di quelle, decisero di tener celata la immane sciagura al popolo, per modo che questo non seppe mai niente di ciò, e continuò a venerare quell'Arca, la quale non era, pur troppo, che un semplice simulacro della prima. (p. 23)
  • Il popolo etiopico, orgoglioso delle tradizioni [...] e convinto di esser divenuto per volontà di Dio il vero popolo eletto sulla terra, a cagione della discendenza salomonica di Menelik I, in sostituzione del popolo ebreo, resosene indegno, è andato a ricercare nella Bibbia tutte le promesse fatte da Dio ad Abramo e a David, e ritiene che esse siano ancora in pieno vigore per il proprio paese. (p. 24)
  • Direi quasi che l'orgoglio in Abissinia è una malattia contagiosa, cronica, permanente, che non risparmia nemmeno i più miseri. Non deve quindi stupire se questo orgoglio si trova elevato a potenza molto elevata nei legittimi regnanti di quel paese, che fanno seguire il loro nome da iperbolici titoli. (pp. 25-26)
  • Ora, i regnanti di Etiopia, nelle ingenua ma ferma convinzione di occupare di diritto e di fatto il primo posto fra i regnanti di tutto il mondo, ogni volta che hanno avuto occasione di indirizzare messaggi a regnanti europei, lo hanno fatto appunto nel modo da essi usato verso i loro inferiori, ossia iniziando la lettera col proprio nome, anche quando facevano ciò per invocare importanti servigi da loro. (p. 26)
  • Si dice [...] che il Negus Teodoro, ritenendo l'Inghilterra il paese più ragguardevole dopo il suo, rivolgesse alla regina Vittoria domanda di matrimonio, e che la mancata risposta fosse il movente che lo indusse a imprigionare, per atto di rappresaglia e di sfida, tutti gli europei che tovavansi presso di lui [...].
    In quella tragica vigilia, ma troppo tardi, Teodoro comprese che la superiorità etiopica era ormai una leggenda fantastica; il che non ha tuttavia impedito alla massa di continuare a credervi. Umili e grandi ne sono ugualmente convinti, e se ciò costituisce una ingenuità, non si può negare che costituisca anche una forza per lo stato che tali credenze coltiva, con pieno consenso, fra i suoi sudditi. (p. 27)
  • [...] degli Abissini si può dire quello che è stato detto degli Ebrei, e cioè che, credendosi di una stirpe privilegiata, hanno sempre voluto isolarsi, e mantenersi distinti da tutte le altre nazioni.
    Questa credenza ispirò ad essi il concetto della autoglorificazione, perché ritennero di essere veramente i solo veri figli di Dio, discendenti diretti della linea primogenita di Adamo, senza riflettere che la funzione del popolo eletto venne necessariamente a cessare colla venuta di Gesù Cristo, immolatosi per la intera umanità, e non per la fortuna di un popolo. (p. 31)
  • [...] in Etiopia è pacificamente ammesso e riconosciuto, che la madre ha diritto di attribuire con giuramento la paternità del figlio a chi essa ritiene ne sia l'autore, senza bisogno di altra indagine o prova concomitante.
    L'unione poi, sia pure effimera, con una schiava, decisamente biasimata e derisa quando si tratta di altri, è invece susata trattandosi di signori e di principi, i quali pur non tenendo un harem, come i mussulmani, ne seguono la pratica poligama. L'importante è che la discendenza dei salomonidi e la loro tradizione continui. (pp. 37-38)

Explicit

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Bibliografia

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Irridentismo russo

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  • L'idea secondo cui la Russia sarebbe a casa propria ovunque si parla russo [...] basterebbe, se fosse convalidata, a mettere l'Europa e il mondo a ferro e fuoco. Che succederebbe, se si ragionasse così, con i transilvani in Romania? Con i catalani in Francia? Con le tre comunità linguistiche di cui è composta la Svizzera? Con quella «minoranza vallona» di cui certi ideologi, a Mosca, già sostengono che sarebbe minacciata di «genocidio»? Con quella parte della California dove si parla spagnolo? Con la Gran Bretagna, che ha la lingua in comune con l'America? Il nazionalismo linguistico, sotto Putin non meno che all'epoca, nel 1938, dell'annessione dei tedeschi dei Sudeti al Terzo Reich, è un vaso di Pandora. [...] allora come si potrebbe impedire alla Lituania di rivendicare Smolensk? Alla Polonia di avanzare i suoi diritti su Leopoli? Alla Slovacchia di invadere l'oblast della Transcarpazia? Alla Moldavia di reclamare un pezzo di Transnistria? E perché la Russia, un Paese che, lo ripetiamo, non è mai stato uno Stato-nazione prima del 1991, avrebbe più titoli di altri da far valere sulle terre liberate dell'ex Unione Sovietica? (Bernard-Henri Lévy)

Per Stepan Bandera

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Articolo pubblicato in Vizvolna Politika, novembre-dicembre 1946; Перспективи Української Революції [Prospettive della rivoluzione ucraina], Дрогобич, Видавнича фірма "ВІДРОДЖЕННЯ", 1998, ISBN 966-538-059-1.


Citazioni su Stepan Bandera

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  • L'estrema destra in Ucraina vede certamente Bandera come uno dei loro padri politici, ma l'estrema destra nel paese è molto debole, e la popolarità della figura di Bandera va molto al di là della destra. La ragione è che, sebbene Bandera fosse di estrema destra e – almeno per un periodo della sua vita – un fascista, in Ucraina oggi non è visto principalmente come tale. È considerato un combattente per l'indipendenza dell'Ucraina che morì per questo. Fu ucciso a Monaco di Baviera nel 1959 dal KGB – la stessa organizzazione nella quale si è formato Putin. Nel discorso pubblico la sua figura è quella di un liberatore, anche se naturalmente non avrebbe instaurato un regime liberale se fosse andato al potere. Del resto, i suoi rapporti con l'occupante tedesco durante la Seconda guerra mondiale erano stati conflittuali. Due dei suoi fratelli furono uccisi ad Auschwitz (apparentemente da compagni di prigionia). Un altro fratello morì durante l'occupazione tedesca in circostanze non chiare. Lo stesso Stepan Bandera è stato a lungo rinchiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen vicino a Berlino. Queste sono le cose che sono enfatizzate dalla memoria pubblica in Ucraina: una memoria selettiva, non una visione storica oggettiva. È un fenomeno che vediamo in molti Paesi, dove le pagine buie delle biografie degli eroi nazionali sono dimenticate o taciute. (Andreas Umland)
  • La Russia usa allegramente il culto ucraino di Bandera come prova che l'Ucraina è uno Stato nazista. Gli ucraini rispondono per lo più sbianchettando l'eredità di Bandera. È sempre più difficile per le persone concepire l'idea che qualcuno possa essere stato il nemico del tuo nemico e tuttavia non una forza benevola. Una vittima e anche un carnefice. O viceversa. (Maša Gessen)

Bibliografia

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  • Степан Бандера, Перспективи Української Революції [Prospettive della rivoluzione ucraina], Дрогобич, Видавнича фірма "ВІДРОДЖЕННЯ", 1998, ISBN 966-538-059-1.

Vera Aleksandrovna Politkovskaja (1980 – vivente), giornalista russa.

Intervista di Fiammetta Cucurnia, Video.repubblica.it, 4 ottobre 2007.

  • Lei riceveva sempre minacce. Noi vivevamo con questa continua pena, paura. Però lei proprio non ne voleva neanche parlare. Lei diceva: «Questo è il mio paese. Io sono nata qui, voglio vivere qui, voglio lavorare qui. Quale sarà il mio valore se io prendo, lascio tutto e me ne vado?».
  • Era mia madre. Io penso che, durante la sua vita, lei ha fatto molto bene per le persone e ha lasciato sicuramente la sua traccia. E quindi col suo contributo qualcosa di meglio c'è nel nostro paese. Però contemporaneamente devo dire sarebbe stato molto meglio che lei non se ne fosse occupato, che non avesse fatto nulla e che fosse viva. Per me, al diavolo tutto. Io avrei voluto mia madre.

Intervista di Giorgio Comai, Balcanicaucaso.org, 3 dicembre 2010.

  • Non augurerei a nessuno di leggere sulla propria madre il tipo di frasi ed opinioni riguardanti Anna Politkovskaja che mi è capitato di trovare.
  • Alla procura si sono occupati di indagini per due anni prima di dare inizio al processo e hanno arrestato delle persone, che tra l'altro poi hanno liberato. E non sono neppure riusciti a contare correttamente la tempistica dell'omicidio. Quando hanno indicato i secondi che sono trascorsi tra il momento in cui mia madre è entrata nel nostro condominio a quando l'assassino è uscito, non corrispondevano con le ore che avevano fornito. Ce l'ha fatto notare una nostra amica giornalista proprio mentre eravamo in aula di fronte al giudice. È un piccolo errore, forse, ma dimostra con quanta poca serietà abbia lavorato chi si è occupato delle indagini.
  • Abbiamo ricevuto molte dimostrazioni di sostegno da rappresentanze diplomatiche estere. Ricordo che ad esempio il console francese è venuto di persona al funerale e ci ha passato una lettera di condoglianze firmata personalmente dal capo dello Stato del suo Paese. Ma i diplomatici non vengono certo a dire a noi di cosa parlano nei loro incontri ufficiali con i vertici russi.

Intervista di Valentina Barbieri, Lsdi.it, 17 maggio 2011.

  • Nel nostro paese la libertà di stampa è un problema grave. Ogni giornalista si trova di fronte ad un bivio: può scegliere la carriera e scrivere quello che gli dicono oppure può fare una scelta diversa, scrivere quello che trova giusto e occuparsi di quello che gli interessa. Le conseguenze sono diverse: nel primo caso guadagnerà un posto di prestigio (ovvero statale), nel secondo caso potrebbe finire male.
  • Per quanto riguarda il mio vissuto di giornalista, cerco di evitare qualsiasi confronto tra l’esperienza di mia mamma e la mia. Non ho la sua ricchezza professionale, trent’anni di attività, la sua grande esperienza. Lei lavorava a modo suo, in una maniera personale, io lavoro in un altro modo, il mio.
  • Quando ti riferisci a qualcuno, inizi inevitabilmente a copiare, mentre nel giornalismo è più importante lavorare sul proprio stile.

Intervista di Aleksej Tekhnenko, Repubblica.it, 3 marzo 2015.

  • Quello di Nemtsov è un omicidio politico, dimostrativo, arrogante. Come quello che ha distrutto la nostra famiglia. [...] Riconosco uno stile che mi preoccupa. Vaghezza, contraddizioni e troppe ipotesi che fanno solo confusione. Come allora.
  • A me basta la certezza che sia un omicidio politico. Chiunque abbia ucciso lo ha fatto per mettere a tacere una voce scomoda. È sempre la stessa storia.
  • Bisogna restare all'erta. Contrastare ogni voce falsa, chiedere giustizia sempre, instancabilmente. E mi auguro che gli amici e i compagni di movimento di Nemtsov riescano a tenere alta l'attenzione sui media. Lo so per esperienza, non è facile. Tutto si dimentica.

Intervista di Sara Giudice, La7.it, 5 maggio 2022.


Tg24.sky.it, 14 ottobre 2022.


Intervista di Massimo Giannini, Lastampa.it, 21 febbraio 2023.


Rainews.it, 22 febbraio 2023.


Iodonna.it, 20 maggio 2023.

  • Se parliamo di questo momento storico, noto molti cambiamenti, ma in negativo. Non vedo segnali di miglioramento della situazione o di un prossimo futuro in cui la Russia sarà finalmente “un Paese felice”. La Russia precipita sempre di più in una realtà oscura e imprevedibile. Per uscirne impiegherà diversi decenni.
  • Oggi i diritti dell’uomo, così come sono intesi in Occidente, non esistono. Non solo, ma negli ultimi tempi politici e personaggi pubblici insistono nel criticare l’introduzione di queste concezioni in Russia, o a distorcerne il significato. Adesso ai diritti della persona vengono contrapposti i non del tutto chiari “valori tradizionali”. Risultato: l’attività di alcune persone sui social porta a procedimenti penali, il movimento Lgbt è di fatto vietato, tutti i media dell’opposizione sono stati bloccati in rete o chiusi. La Russia si è ritirata dalla convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Se si scava, poi, un po’ più a fondo, si scopre che non c’è più nemmeno lo spazio per tentare di difendere i diritti umani.
  • [...] in Russia la misoginia è un sentimento abbastanza diffuso e per qualche russo è addirittura parte di quei valori tradizionali cui accennavo prima. Però, a essere sinceri, in molti Paesi questo sentimento è comune almeno quanto in Russia, e in alcuni anche di più. Se poi contestualizziamo il tutto da un punto di vista storico, non è passato molto tempo da quando le donne hanno ottenuto almeno il diritto di voto. E ora, come allora, la parte femminile del mondo deve ancora lottare per ottenere le stesse possibilità degli uomini. Per questo continuare a conquistare i propri diritti è il compito più importante per tutte le donne del pianeta.

Repubblica.it, 23 ottobre 2023.

  • Riconosco senza problemi che una parte della responsabilità per quello che accade è mia, in quanto cittadina proveniente dalla Russia, e i cittadini dell’Ucraina, finché la guerra non finirà, hanno tutto il diritto di accusare i cittadini della Federazione russa per quanto si sta verificando. Ma questo diritto è solo loro.
  • Come è possibile che l’odio verso i russi in tanti Paesi del mondo, specie in Europa, faccia ormai parte della normalità? La prima cosa che colpisce è la reazione serafica della comunità europea che vede in questo odio un dato di fatto, un normale stato delle cose. Va detto che anche l’invasione dell’Ucraina è un dato di fatto, ormai scontato, per molti russi. Qual è dunque la differenza tra comunità europea così civile e quella russa, che negli ultimi diciotto mesi è stata costantemente tacciata di non ribellarsi a sufficienza contro le autorità? Dove sono finiti tutti quelli a cui stridono i denti a forza di intestarsi la causa animalista, quella della comunità LGBTQIA+ o quella degli afroamericani? Siete tutti concordi nel dire che siamo tutti uguali ma prendersela con una persona solo perché possiede il passaporto russo vi sta bene?
  • La maggioranza degli stati che non accoglie più i russi e ha anche interrotto l’emissione di visti di transito è rappresentata da Paesi al confine con la Russia. Ovvero proprio quei Paesi in cui si sono rifugiati i miei concittadini in fuga dagli orrori del regime di Putin. L’hanno fatto in pena per il futuro e l’incolumità delle proprie famiglie, temendo di essere esposti a azioni persecutorie politiche, che oggi in Russia equivalgono a quelle penali.
  • Tra i Paesi che non concedono visti ai russi figurano la Polonia, la Finlandia, la Repubblica ceca, la Lettonia e tanti altri. Oltre a questo divieto, di recente i politici di tutti i Paesi europei che spartiscono la frontiera con la Russia hanno bloccato l’ingresso nei paesi membri dell’Unione Europea alle automobili immatricolate nel mio Paese. L’argomentazione utilizzata per giustificare la misura rimanda a una delle regole del regime sanzionatorio introdotto dopo lo scoppio della guerra: ora le automobili russe sono considerate merce d’importazione e quindi vietata.
  • «Russi, dovete soffrire! Ovunque siate, alla fine siete voi che avete invaso! Se non vi va bene ritornatevene a casa vostra e rovesciate Putin! Non avrete diritti finché ci sarà la guerra!». Ogni qual volta sento pronunciare queste frasi da parte degli ucraini, la mia mente va col pensiero alle loro città dove tutti i giorni cadono i missili russi. Mi sento capace di capirli e perdonarli ogni volta, perché mi mostrano un odio viscerale, ma per «una giusta causa». Tuttavia non posso non notare i parallelismi con la retorica del Cremlino: potete “invitare” i russi a tornare casa per rovesciare Putin quanto volete, ma rimane il fatto che ora tutti i critici del regime in vigore a Mosca si trovano o sotto terra, o in prigione o all’estero. Non dimentichiamo che è da diciotto mesi che lo stesso esercito ucraino non riesce a sconfiggere il regime putiniano, al netto di tutti gli aiuti provenienti dal mondo civile.
  • La guerra in Ucraina è il frutto di una politica pluriennale del Cremlino, smascherata sovente da chi ora non c’è più, è dietro le sbarre oppure se n’è andato. Al contempo è anche il fallimento totale della diplomazia non solo di Kiev e Mosca, ma anche di quella europea e americana. A pensarci bene, i responsabili delle ostilità in Ucraina al massimo sono i vertici del potere russo e i politici occidentali. Ora Putin potrà troneggiare legalmente fino al 2036. Il presidente di un paese immenso ha sistematicamente violato le leggi, anche quelle internazionali, ma in tutto il mondo civile hanno continuato a stringergli la mano.

Repubblica.it, 19 febbraio 2024.

  • Per i politici europei e americani, l’omicidio di Navalny è solo l’ennesimo pretesto per prendere la parola e ancora una volta “dare uno schiaffo” alla Russia di Putin.
  • L’oppositore russo è stato in qualche modo il prigioniero personale di Vladimir Putin che lo temeva talmente da non osare pronunciare il suo nome ad alta voce, offrendo così il fianco ai giornalisti che glielo hanno fatto notare a più riprese. Navalny, dal canto suo, trovandosi già dietro le sbarre, non ha mai avuto paura a definire il capo di stato russo un omicida, un farabutto e un ladro. Con il sorriso sarcastico sul suo volto, in più di un’occasione ha schernito il presidente russo e tutto il sistema da lui costruito. Le numerose cause penali intentate ai suoi danni non facevano altro che dargli il pretesto per farsi una risata.
  • [...] le persone che si sono occupate di eliminare Navalny sono ufficialmente “a servizio dello stato” nei tribunali, nelle procure, nelle carceri e nelle case circondariali. Si tratta di persone che non per forza occupano posizioni di rilievo. Ma tutte loro, in un modo o nell’altro, sono complici e, qualora il caso relativo all’omicidio di Navalny dovesse arrivare in tribunale, sul banco degli imputati ci sarebbero decine di persone.
  • [...] le cose si svolgeranno come si erano svolte fino all’esecuzione di Navalny. Con l’aiuto delle forze dell’ordine, degli arresti e dei processi, metteranno il bavaglio a tutti quelli che oseranno pronunciare la verità sulla fine dell’oppositore. I politici occidentali si indigneranno ancora un po’, esprimeranno il loro orrore rispetto a quanto accade in Russia, salvo poi tornare subito a occuparsi delle loro vicende quotidiane. Succederà così perché non possono fare nulla, non hanno mai avuto e non hanno neanche ora delle reali possibilità per fare leva sulla situazione in modo da cambiarla.

Repubblica.it, 8 marzo 2024.

  • Mentre in tutto il mondo civilizzato il ruolo della donna nella società cresce, in Russia si susseguono prese di posizione che non fanno che danneggiarla. Non mi riferisco solo al divieto di abortire, già in vigore nelle strutture sanitarie private del Paese, ma anche agli appelli dei politici che chiedono di limitare l’accesso delle donne all’istruzione secondaria, in modo che non vengano distolte da quella che secondo lo Stato (e secondo una parte dei russi) è la loro funzione principale: fare figli.
  • In generale l’impressione è che – sempre nella visione statale – le donne russe, ancor più dopo l’inizio della guerra con l’Ucraina, siano destinate a ricoprire esclusivamente il ruolo di macchine per la riproduzione della popolazione.
  • Ad abbandonare la Russia sono state proprio quelle persone che avrebbero potuto influire sul futuro in maniera positiva. Neanche dall’estero riescono a far sentire la loro voce: la macchina della propaganda ha fatto presto a bollare come "traditore della patria” chi è andato via. Con il risultato che chiunque dall’estero osi criticare pubblicamente la situazione in Russia viene sommerso da una montagna di fango e screditato in tutti i modi possibili, compreso ritrovarsi oggetto di azioni civili e penali. Lo scopo è anche quello di rendere difficile il rientro in patria di queste persone.
  • [Su Julija Naval'naja] La denigrazione del nemico con ogni mezzo è pratica diffusa in Russia: se poi il nemico è una donna che ha osato mostrare al mondo un’immagine che non è solo quella della vedova inconsolabile e in preda al dolore, i denigratori sono capaci di tutto. La misoginia trova terreno fertile nella nostra società.
  • Nell’immaginario collettivo russo il campo d’azione legittimo della donna continua a essere quello della cucina e delle stanze da letto dei figli. Anche per quelle che riescono a uscire da questo schema la vita non è semplice: il divario salariale a parità di professione e di ore di lavoro, nel migliore dei casi, è del 30 per cento. Gli uomini non hanno nessun problema a cercare di ostacolare la carriera delle loro colleghe.
  • [...] nel Caucaso, e in particolare in Cecenia, la situazione per le donne è orribile. Qui, come all’epoca dei barbari, sono soggette a mutilazioni genitali e rischiano di venire uccise in nome dell’onore della famiglia.
  • Il 40 per cento circa dei russi è convinto che se un uomo mantiene una donna può vietarle di uscire di casa, incontrare gli amici e i parenti, lavorare o utilizzare le carte di credito senza il suo consenso. Certo, non tutti gli uomini russi la pensano così. Ma se ci riferiamo al cosiddetto “Paese profondo”, allora diciamo che questa visione della donna è molto diffusa.
  • Mi piace pensare che sia possibile, ma servirebbero sforzi giganteschi e un leader, o una leader, capace di unire moltissime persone che la pensano in maniera diversa sulla guerra e sull’operato di Putin. Yulia Navalnaya ha tutte le carte in regola per diventarla. Ha tutto quello che le serve, salvo il marito.
  • Credo che Yulia sia assolutamente in grado di unire tutte le forze di opposizione russe al di fuori del Paese. Ma l’apparato repressivo all’interno del Paese è talmente potente che riuscire a coinvolgere chi vive in Russia sarebbe ben altra impresa. Questo è un dato di fatto, e non può essere ignorato.
  • Le donne russe sono forti per natura e temprate dalle circostanze. Di “principesse sul pisello” io ne conosco poche. La mia speranza è che sulla scena politica emergano donne che sappiano guardare la realtà come la vede Yulia Navalnaya. Penso che solo loro potrebbero diventare la forza motrice che potrà far uscire la Russia dalle tenebre in cui si è impantanata.

Una madre

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Incipit

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Mia madre è sempre stata una persona scomoda, non solo per le autorità russe, ma anche per la gente comune che sfoglia un giornale e ne legge gli articoli. Purtroppo la maggioranza della popolazione russa crede a quello che le viene detto dagli schermi dei canali di Stato: un mondo virtuale creato dalla propaganda, dove, nel complesso, tutto va bene. E i problemi, che periodicamente vengono segnalati all’opinione pubblica, hanno origine nei Paesi occidentali o, come si dice in Russia con un sorrisetto, «nell’Occidente in decomposizione».

Citazioni

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  • I dittatori hanno bisogno di offrire sacrifici umani per consolidare il loro potere. (p. 10)
  • In Russia tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta, perché mantenere la memoria di persone come mia madre è pericoloso. È molto più comodo perderne le tracce e dimenticare la sua verità. (p. 10)
  • In Occidente il nome Politkovskaja è fonte di orgoglio. A mia madre intitolano piazze e vie, la sua attività giornalistica viene studiata nelle università, i suoi libri si vendono in tutto il mondo. In Russia quel nome è avvolto dal silenzio. (p. 10)
  • Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato ad avere un peso, a essere oggetto di minacce, ancora di morte, questa volta contro mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Pesantemente. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. (p. 10)
  • Anna Politkovskaja si formò come giornalista proprio nel periodo della perestrojka. Ne ha incarnato perfettamente lo spirito, il desiderio di cambiamento: sognava una democrazia compiuta, e sognava di fare il suo mestiere in un Paese libero, come dovrebbe essere, come non è quasi mai, nel mondo. (p. 16)
  • Nella vita di tutti i giorni mia madre era una persona difficile. La gestione familiare, il desiderio di avere il meglio per noi, oltre alla sua acuta percezione di tutto ciò che accadeva intorno, prosciugavano le sue forze. A ripensarci ora, credo che la responsabilità di una famiglia le sia caduta addosso troppo presto. (p. 25)
  • [Sul putsch di agosto] Di quei momenti, dopo il ritorno a Mosca, ricordo questa scena in particolare: mia madre che piange seduta su una panchina nel cortile di casa. Ignara del motivo, pensavo fosse preoccupata per papà, che non era ancora tornato dalla Casa Bianca. Invece poi ho scoperto che quel giorno tre giovani manifestanti che si opponevano ai golpisti erano morti, schiacciati dalle ruote di un veicolo da combattimento della fanteria proprio nel centro di Mosca. Alla notizia, mamma non era riuscita a trattenere le lacrime. L'episodio fu per lei un chiaro esempio di come troppo spesso siano le persone comuni a subire le conseguenze di avvenimenti storici di portata epocale, anche pagando con la vita: un tema che percorre come una linea rossa tuta la sua carriera professionale. (p. 32)
  • In cabina di regia scherzavamo sul fatto che, per qualche motivo a noi sconosciuto, gli opinionisti filogovernativi risultavano sempre un po' retrogradi, dei sempliciotti, con il loro eloquio clericale, noioso e poco interessante, mentre gli avversari dimostravano grande acume, profonda conoscenza dell'argomento oggetto della discussione, e avevano un atteggiamento propositivo e idee concrete per trovare una soluzione al problema. Gli oppositori non pensavano solo a farsi belli di fronte alle telecamere, e lo spettatore era in grado di capire benissimo come stavano le cose. (p. 46)
  • Molti in Occidente non capiscono perché i russi accettino così docilmente tutto ciò che fanno le autorità. I cittadini non protestano, non scendono in piazza. Oltre al fatto che la maggior parte della popolazione è impegnata a sopravvivere in condizioni di povertà, le sanzioni per la partecipazione a picchetti o manifestazioni sono diventate così elevate che pochi osano esporsi. Se in Europa, al termine di una «protesta» pacifica, ciascuno può rientrare tranquillo a casa propria, in Russia la maggioranza dei manifestanti finisce in una stazione di polizia. E non è scontato che se la cavi con una «semplice» (comunque alta) sanzione amministrativa, anziché con quindici giorni di cella. Anzi, spesso rischia un processo penale. (p. 53)
  • Chi può, in Russia, evita il servizio militare come la peste, perché sa che nelle caserme potrebbe accadere di tutto, ammesso di sopravvivere al nonnismo incontrollato. È risaputo, inoltre, che in tempo di pace i soldati vengono spediti in zone impervie affinché diventino «veri uomini», imparando a cavarsela con misere razioni alimentari e attrezzature poco idonee. Il podersoso ammodernamento delle forze armate, per il quale è stato speso l'equivalente di milardi di euro, è in buona parte avvenuto solo formalmente e non si capisce dove siano finiti quei soldi. (p. 63)
  • [Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022] Secondo le stime dell'intelligence ucraina, in migliaia si sarebbero dati alla fuga dalla prima linea e in alcune unità si è arrivati al 60-70 per cento di disertori. I dissidenti russi si mantengono più cauti, calcolando gli abbandoni in circa un miglaio. Il Cremlino, proprio come sul numero dei morti, tace. (p. 66)
  • I familiari dei caduti raccontano che spesso apprendono della scomparsa dei congiunti dai commilitoni o dai canali Telegram ucraini. Oppure capiscono che è successo qualcosa di irreparabile quando il loro congiunto smette di chiamare a casa. I russi, al contrario, tendono a lasciare sul campo i corpi dei comilitoni russi. (p. 66)
  • Un'intera generazione di giovani pagherà un prezzo altissimo, come è già avvenuto ai tempi della Seconda guerra mondiale, del conflitto in Afghanistan e della Cecenia. E il prezzo non è solo la morte. Tra i fortunati che torneranno da questa guerra, le conseguenze psicologiche saranno incalcolabili, per non parlare dell'enorme quantità di invalidi che non sapranno di cosa vivere. (p. 69)
  • Io sono una cittadina russa, ma sono disgustata dal cieco nazionalismo e dallo pseudopatriottismo che stanno montando nel mio Paese. Quando un Paese aggredisce, chi subisce e soffre deve difendersi. Credo sia giusto che l'Occidente stia aiutando attivamente l'Ucraina a difendersi. Se così non fosse stato, la guerra sarebbe già finita. E penso che lo stesso Cremlino avesse scommesso sulla mancanza di sosteno da parte occidentale, quando ha cominciato l'aggressione. Quello che dico può apparire una contraddizione, per me che sono una pacifista convinta. Odio la guerra e le conseguenze che porta con sé. Ma si tratta di una contraddizione inevitabile. Voglio vedere la Russia come un Paese prospero, libero e sviluppato, non incosciente, povero e militarizzato. (p. 70)
  • La diffusione di informazioni da canali non ufficiali inizialmente comportava una multa, quindi la sospensione dell'attività, infine il ritiro della licenza per trasmettere, radio o televisione che fosse, o per stampare e vendere il giornale. Nel corso del primo mese di guerra, in Russia sono state varate alcune leggi che introducevano la responsabilità amministrativa e penale per la diffusione di «fake news» riguardanti le azioni dell'esercito russo, con una pena prevista fino a quindici anni di carcere. Ciò ha permesso di arrestare diverse persone che avevano criticato l'operato dei militari russi in Ucraina sui social o sui propri blog. (p. 76)
  • A tutte le difficoltà oggettive connesse con l'inizio della guerra se n'è aggiunta una ulteriore, che riguarda solo mia figlia: inconsapevolmente si è ritrovata anche lei sulla linea del fuoco. Lei si chiama come la nonna, Anna Politkovskaja, e per questo a scuola è stata subito oggetto di atti di violenza e di bullismo. A dire la verità, era già accaduto in passato. Quando Anna visitava una nuova palestra per un corso di ginnastica, le veniva spesso ricordato dai suoi coetanei, ovviamente in forma offensiva, da quale famiglia provenisse. Dopo il 24 febbraio 2022, però, la mancanza di rispetto si è trasformata in minaccia. (pp. 77-78)
  • Quando mamma era via, in pratica non avevamo alcun contatto con lei, perché non esistevano linee telefoniche adeguate. Eppure non sono mai rimasta a casa ad aspettare che tornasse. Del resto, lei non l'avrebbe mai voluto. Mia madre era una donna estremamente indipendente e con questo spirito ha cresciuto anche noi. Ancora adesso, quando ripenso a lei, la vedo seduta alla scrivania con la testa china sul computer a scrivere una «nota». Così le piaceva chiamare i suoi testi: non notizie, articoli, materiali, ma note. E mentre ci si dedicava era assente, anche quando era presente fisicamente. (pp. 89-90)
  • Mia madre non accettava mai compensi da parte delle persone che aiutava: era una questione di principio. (p. 95)
  • Lei cercava comprensione, ma riceveva sostegno solo dai colleghi della redazione del suo giornale e da pochissime altre redazioni di mezzi di informazione alternativi. E, ovviamente, dalle tante persone che aiutava. Perché solo questo contava per lei: fare il proprio lavoro, raccontare quello che vedeva, dare asilo a quanti non sapevano dove altro andare. Le loro storie non coincidevano con la versione ufficiale dei vari uffici competenti legati al Cremlino. (p. 105)
  • Questo era il suo modello di giornalismo. Raccontare i fatti, scrivere senza tener conto delle gerarchie. Un concetto forse banale per chi vive in una democrazia, ma in Russia era pura follia: significava dare per sontata la libertà e sfidare il sistema irritando tutti, compresi i colleghi che avrebbero dovuto farsi carico della stessa responsabilità, raccontando a loro volta la verità. Invece mia madre era sola, profondamente sola. (p. 106)
  • Scrivere la verità serve, anche se nessuno la vuole ascoltare. E serve anche fare il proprio lavoro bene, sempre. Mettere in discussione questo significherebbe riconoscere che il suo sacrificio è stato inutile. (p. 107)
  • Lei era profondamente convinta che, nel momento in cui si assiste a un'ingiustizia, si è costreti a intervenire. Se invece non la riconosci, o non ci credi, allora non ti senti coinvolto, anche se in fondo sospetti che un'ingiustizia esista. (p. 108)
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] I terroristi avevano già ucciso diverse persone. Doveva avanzare con cautela, seguendo un certo percorso all'interno dell'edificio, e un passo sbagliato a sinistra o a destra poteva portare all'irreparabile. «Lì dentro ricordo di aver calpestato vetri rotti mescolati a qualcosa che sembrava sangue», c'erano vetri ovunque mi disse. «Una sensazione impossibile da dimenticare». (p. 117)
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Dopo alcuni articoli si cominciò a dire che mia madre stava speculando sui morti, che «ballava sulle loro ossa» per fare carriera. Come spesso accade in Russia, parlare o scrivere di questa vile operazione, a seguito della quale morirono centotrenta persone, invece di essere liberate, significa mettere in discussione il lavoro delle forze speciali e le decisioni della leadership. Per questo, proprio perché la cosa era andata male ed erano morte molte persone, le dicevano di lasciar perdere. (p. 120)
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Mi sarei potuta trovare anche io in quel teatro. Tra gli ostaggi, le vittime o tra quanti, a causa di quella storia, portano cicatrici che non si rimarginano. Ma non avevo sentito la sveglia e l'audizione, quel famoso giorno, era saltata. (p. 122)
  • [Sulla strage di Beslan] Se fosse arrivata a Beslan, mia madre avrebbe provato a parlare con i terroristi, ma evidentemente troppe persone non volevano che accadesse. Non tolleravano come lavorava, il fatto che raccogliesse le testimonianze delle famiglie degli ostaggi. Su quell'aereo non hanno solo cercato di ucciderla. Le hanno impedito di fare il suo lavoro. (p. 139)
  • Nessuna autorità russa presenziò al funerale. Solo tanta gente comune in lacrime. Quel giorno mi resi davvero conto di quanto lei fosse tenuta in considerazione, di quanto le volessero bene e di quanto profondamente il suo assassinio avesse scosso l'opinione pubblica. In molti, da quel momento, non avrebbero avuto più voce, né una spalla su cui piangere. Per tante di quelle persone si era spenta l'ultima possibilità di avere giustizia, di vedere scritta la propria storia. (p. 165)
  • In Russia, i membri delle forze dell'ordine rappresentano una casta a sé. Per me è sempre stato un mistero dove e da chi imparino a comportarsi e a comunicare con la gente. Spesso il loro stile «da cavernicoli» sembra fatto apposta per innervosire gli interlocutori, farli sentire inferiori, poca cosa rispetto alla «macchina statale» e all'uniforme che hanno di fronte. La maggior parte delle persone normali, a cui non è mai capitato di avere a che fare con loro, la prima volta non sa come affrontarli. (p. 170)
  • La seconda guerra cecena è stata una delle meno raccontate della storia, spacciata per giunta come lotta al terrorismo islamico, uno dei pilastri su cui Putin costruì una parte consistente della retorica sulla sua nuova Russia. Un secondo, forte pilastro propagandistico fu individuato nella «grande guerra patriottica», la resistenza al nazismo e la vittoria del 1945. Se il nazismo era stato il nemico e la sua sconfitta un atto fondativo della nuova Russia, chi ne sottovalutava la valenza politica e storia si poneva automaticamente al di fuori del pensiero dominante in Russia. Bisognava eliminare le scorie del decennio eltsiniano e degli anni della perestrojka, quando la ricerca storica aveva vissuto un periodo di grande libertà erano venute alla luce verità sgradevoli per i russi, legate ai crimini del regime staliniano. La storia e la democrazia dovevano diventare sovrane, mentre la libera ricerca storica era vista come una minaccia, perché capace di «leggere» in maniera critica la narrazione dominante del passato. [...] Il terzo pilastro su cui poggia la nuova dottrina nazionale è quella del vittimismo. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia è stata umiliata. Da chi, se non dall'Occidente, con i suoi valori così lontani da quelli della tradizione russa? (pp. 181-183)
  • Putin e i suoi, [...] oltre alla sbandierata denazificazione, non hanno mai dichiarato i veri scopi della guerra. In Russia è stato ripetuto che si trattava di proteggere la popolazione del Donbass dopo otto anni di continue aggressioni e che in Ucraina esisteva un regime nemico, pronto, secondo Mosca, a invadere il Paese su mandato dell'Occidente. La realtà è che il Cremlino non può tollerare un'Ucraina democratica, che cerca di porre le basi per il suo ingresso nell'Europa politica. Una guerra prolungata, comunque vada a finire, rallenterà il processo di democratizzazione ed europeizzazione dell'Ucraina. La dirigenza russa parla anche dell'esistenza di una minoranza nazionale russa in Ucraina che non può essere esclusa dal godimento dei pieni diritti tra cui, per esempio, l'uso del russo a scuola e negli uffici pubblici. Nel primo mese di guerra, tuttavia, i bombardamenti si sono concentrati proprio sui territori in cui è preponderante la popolazione russofona, così come russofona è la maggioranza dei profughi costretti a lasciare le proprie abitazioni. Dopo l'aggressione, addirittura, molti di loro stanno progressivamente privilegiando l'ucraino. (pp. 183-184)

Explicit

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Bibliografia

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  • Vera Politkovskaja, Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja, traduzione di Marco Clementi, Rizzoli, ISBN 978-88-17-17882-2

Intervista di Paul Rowlands, money-into-light.com, giugno 2021.

  • Girare i film dell'orrore è stressante, perché la paura deve sempre stare (deve sempre esserci la paura) su un piano psicologico. Devi continuare a lavorare con quella paura costantemente. Devi sentirla nelle tue emozioni.
Making horror films is stressful, because the fear always has to be on a psychological plane. You have to keep working with that fear continuously. You have to feel it in your emotions.
  • Dario era un grande ammiratore di Edgar Allan Poe, e per lui i corvi erano un elemento molto importante del film. Quando stavamo girando un scena particolare del film, mi gettava addosso dei corvi vivi. Io gridavo "Basta! Basta!" e lui diceva "Devo farlo perché devi provare questa paura e questa sensazione". Litigavamo, ma era un periodo divertente per me. Stressante ma divertente.
Dario was a big fan of Edgar Allan Poe, and ravens were a very important element of the film for him. When we were shooting a particular scene in the film, he threw actual live ravens at me. I shouted "Stop! Stop!" and he said "I have to do this because you need to experience this fear and sensation." We would fight with each other, but it was a fun time for me. Stressful, but fun.
  • Litigavamo tanto, ma c'era rispetto reciproco tra di noi. Lui mi rispettava come attrice ed io lui come regista. Era molto concentrato su elementi tecnici (questioni tecniche, dettagli tecnici), mentre io volevo fargli tante domande sugli aspetti psicologici del mio personaggio e della storia. Ma lui non diceva altro che "No, no, no, va tutto bene" e poi parlava di cosa stava per fare tecnicamente (sul piano tecnico).
We fought a lot, but there was mutual respect between us. He respected me as an actress and I respected him as a director. He was very focused on technical things, whereas I wanted to ask him a lot of questions about the psychological aspects of my character and the story. But he would just say "No, no, no that's all fine" and then just talk about what he was going to do technically.

David W. Macdonald (...), zoologo britannico.

Running with the fox

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  • I lupi cacciano prede grandi; infatti, un alce può pesare 600 chili, dieci volte il peso del lupo più grande. Da solo, il lupo non sarebbe altro che pula per i palchi dell'alce. Un branco, però, può radunare la forza collettiva dei suoi membri. Infatti, lavorando in gruppo si trasformano in una nuova creatura, un super predatore la cui capacità collettiva oltrepassa l'abilità venatoria degli individui coinvolti. La volpe, al contrario, è circa 300 volte più pesante di un topo. La caccia volpina non comporta alcuna maratona affannante, nessuno squartamento, nessun duello contro gli zoccoli. Piuttosto, astuzia, agilità, un balzo aggraziato e un morsetto preciso segnano il destino del topo.
Wolves hunt large prey; indeed, a moose may weigh 600 kg, ten-fold the weight of the largest wolf. Alone, the wolf would be little more than chaff to the moose's antlers. A pack, however, can muster the collective might of its members. Indeed, by working as a team they are transformed into a new creature, a super-predator whose summed capability exceeds the hunting prowess of the individuals involved. A fox, in contrast, is some 300 times heavier than a mouse. The vulpine hunt involves no lung-bursting marathon, no rip and rend, no sparring against hoofs. Rather, stealth, agility, a graceful leap and a precision nip seal the mouse's fate. (p. 10)
  • Le persone mi chiedono spesso perché ho scelto di lavorare con le volpi. Solitamente rispondo che questa specie offre il migliore di molti mondi: il brivido di osservare comportamenti raramente segnalati, la soddisfazione della lotta intellettuale per spiegare perché l'evoluzione ha lavorato ogni sfumatura strutturale in queste incredibili creature, e la convinzione che questa nuova conoscenza sarà utile, contribuendo alle soluzioni di problemi grandi quanto la rabbia e piccoli (ma irritanti) quanto la decapitazione di un pollo di cortile. Questa risposta è onesta, e le motivazioni alla base sono solide. Per dare un'altra risposta, però, non meno importante: io studio le volpi perché sono ancora impressionato dalla loro straordinaria bellezza, perché mi superano in astuzia, perché mantengono il vento e la pioggia sul mio volto, e perché mi conducono alla solitudine soddisfacente della campagna; tutto sommato – perché è divertente.
People often ask why I chose to work with foxes. Generally I reply that this species offers the best of many worlds: the thrill of observing behaviour rarely seen before, the satisfaction of the intellectual wrestle to explain why evolution has worked each nuance of design into these remarkable creatures, and the conviction that this new knowledge will be useful, contributing to the solutions of problems as grand as rabies and as small (but annoying) as the beheading of a barnyard fowl. This reply is honest, and the arguments underlying it are robust. However, to give another answer, no less important: I study foxes because I am still awed by their extraordinary beauty, because they outwit me, because they keep the wind and rain on my face, and because they lead me to the satisfying solitude of the countryside; all of which is to say – because it's fun. (p. 15)
  • Sconfiggere le volpi in astuzia ha messo alla prova l'ingegno dell'uomo per almeno 2.000 anni. [...] Forse, allora, migliaia di generazioni di persecuzione (specialmente quando l'avversario ricorre a trucchi sporchi come marinare i gatti nell'orina) ha plasmato le volpi con le loro quasi sconcertanti abilità di evitare l'uomo e i suoi stratagemmi.
Outwitting foxes has stretched man's ingenuity for at least 2,000 years. [...] Perhaps then, thousands of generations of persecution (especially when the opposition resorts to dirty tricks like marinading cats in urine) have fashioned foxes with their almost uncanny abilities to avoid man and his devices. (p. 16)
  • Rainardo è una volpe che ha avuto un impatto più grande sulla cultura e la sensibilità europea di qualsiasi altro animale selvatico. Adorna i rinfianchi delle chiese medievali, da Birmingham a Bucarest, ghignando dalle pagine dei salteri, e ha trionfato come genio malefico in più di un milione di poemi epici e di bestiari. Prospera nelle storie per bambini contemporanee e ha infiltrato le nostre lingue e perciò le nostre percezioni dei suoi cugini selvatici: poche sono le lingue in Europa in cui la parola "volpino" non è sinonimo di furbizia e inganno.
Reynard is a fox who has had a greater influence upon European culture and perceptions than any other wild creature. He adorns the spandrels of mediaeval churches from Birmingham to Bucharest, leers from the pages of psalters, and has triumphed as an evil genius in more than a millennium of epic poems and bestiaries. He thrives in contemporary children's stories and has infiltrated our languages and thus our perception of his wild cousins: there is hardly a language in Europe in which the word "foxy" is not synonymous with trickery and deceit. (p. 32)
  • Tentare di catalogare l'umore e il risultato delle interazioni delle volpi non è sempre semplice. In particolare, l'osservatore si interroga molto sulla dalla somiglianza esteriore tra l'aggressione e il gioco. Il problema è che la lotta nel gioco ha gli stessi ingredienti della lotta sul serio, tranne per il paradosso che nessuno si ferisce.
Attempting to categorize the mood and outcome of fox interactions is not always straightforward. In particular, the observer is bedevilled by the superficial similarity of aggression and play. The problem is that fighting in play has the same ingredients as fighting in earnest, except for the paradox that nobody gets injured. (p. 45)
  • Se c'è una cosa nella società delle volpi che "non si fa", è di avvicinarsi a qualcuno che sta mangiando. Sotto questo aspetto, il vecchio contrasto con i lupi suona veritiero: i lupi talvolta mangiano una preda fianco a fianco in relativa armonia; le volpi solitamente fanno di tutto per evitare anche di essere viste con del cibo e, nel peggiore dei casi, volteranno almeno le spalle l'una all'altra mentre mangiano. Questo contrasto è particolarmente marcato tra i giovani: i cuccioli di volpe invariabilmente lottano con ferocia sorprendente per il cibo e possono infliggere ferite gravi, i cuccioli di lupo sono più tolleranti. Ovviamente, come qualsiasi altra generalizzazione sulle volpi, ci sono eccezioni alla regola: le volpi maschio nutrono le loro compagne e gli adulti nutrono i cuccioli.
If there is one thing in fox society that is "not done'", it is to approach somebody who is eating. In this respect, the old contrast with wolves holds true: wolves sometimes feed from a kill side by side in relative harmony; foxes generally do everything possible to avoid even being seen with food and, if the worst comes to the worst, will at least turn their backs to each other while eating. This contrast is especially marked among youngsters: fox cubs invariably fight with astonishing savagery over food and can inflict serious injury, wolf pups are much more tolerant. Of course, as with every other generalization about foxes, there are exceptions to the rule: dog foxes feed their vixens and adults feed cubs. (p. 45)
  • Ci sono poche cose affascinanti quanto un cucciolo di volpe, quindi la tentazione di allevarne uno come animale da compagnia è grande. Tuttavia, la gran maggioranza dei "salvataggi" finisce male per tutti i coinvolti. La maggior parte delle persone non ha idea del tempo, strutture, abilità, e soprattutto, tolleranza necessari per allevare una volpe. Da poppanti hanno bisogno di latte ogni quattro ore, giorno e notte, ma questo è un gioco da ragazzi in confronto al loro comportamento una volta svezzati: ogni cucciolo di volpe che ho conosciuto ha avuto una passione sia per il cuoio che per i cavi elettrici. La prima finisce con la distruzione dei portafogli, borsette, scarpe, giacche di camoscio e di montone, mentre la seconda devasta i cavi elettrici. Mi è sempre piaciuto l'odore persistente dell'orina di volpe, ma vale la pena notare che una proprietaria non poté trovare un altro inquilino per diversi mesi dopo che io e la mia volpe lasciammo la proprietà.
There are few things as enchanting as a fox cub, so the temptation to rear one as a pet is great. Nonetheless, the great majority of "rescues" come to a sad end for all concerned. Most people have no idea of the time, dedication, facilities, skill and, above all, tolerance required to rear a fox. As sucklings they require milk at four hour intervals day and night, but this is a trifling difficulty compared with their behaviour once weaned: every fox cub I have known has had a passion for both leather and electric cables. The former results in destruction of wallets, handbags, shoes, suede or sheepskin coats, the latter wreaks havoc with household wiring. I have always rather liked the lingering smell of fox urine, but it is noteworthy that one landlady was unable to find another tenant for several months after my fox and I vacated the property. (p. 56)
  • I costumi della società delle volpi dettano che non c'è amicizia così profonda da poter anche solo tollerare il pensare al cibo di un altro.
The mores of fox society dictate that there is no friendship so deep as to countenance even thinking about somebody else's food. (p. 58)
  • Penso che molto della vita di una volpe passa sul filo del rasoio, sommersa dall'acutezza dei suoi sensi. Nella volpe, l'evoluzione ha modellato una creatura per cui ogni stimolo viene elevato alla massima sensibilità: per la volpe c'è l'immagine fulminea della palpebra che si chiude di un coniglio, lo squittio chiassoso di un topo distante venti metri, il tanfo spaventoso dell'orma vecchia di un giorno di un cane.
I think much of a fox's life is spent on a knife-edge, deluged by the acuteness of its senses. In the fox, evolution has fashioned a creature for which every input is turned to maximum sensitivity: for the fox there is the jolting image of a rabbit's blinking eyelid, the clamorous squeak of a mouse 20 metres off, the dreadful reek of a dog's day-old pawprint. (p. 61)
  • L'industria della selvaggina è probabilmente in gran parte responsabile per la morte spesso sgradevole nell'ordine di 100.000 volpi all'anno in Gran Bretagna, ma contro di questi bisogna valutare il fatto che questa industria fornisce il maggior incentivo per la conservazione dell'habitat su terre agricole.
The game shooting industry is probably largely responsible for the frequently unpleasant deaths in the order of 100,000 foxes annually in Britain, but against these must be weighed the fact that this industry provides the major incentive for habitat conservation on farmland. (p. 173)
  • Le volpi urbane e i gatti si incontrano molto spesso ed è comune vederli insieme, spesso mangiando fianco a fianco. Se c'è una rissa per il cibo, il gatto di solito scaccia la volpe. Casi autentici di volpi che uccidono i gatti tendono a coinvolgere i gattini. Quindi, sebbene sia chiaro che la maggior parte delle volpi non uccidono i gatti, certe lo fanno. Il rischio però è molto meno significativo del rischio che corre il gatto di venire investito sulla strada dal traffico.
Urban foxes and cats meet very frequently and it is commonplace to see them in a close company, often feeding side by side. If there is a squabble over food, the cat generally displaces the fox. Authenticated cases of foxes killing cats generally involve kittens. So, although it is clear that most foxes do not kill cats, some do so. However, this risk must rank very low amongst the worries besetting the urban cat-owner, and certainly is much less significant than the risk of the cat being killed on the road by traffic. (p. 181)
  • Scorte di cibo più ricche conducono a territori più piccoli e scorte di cibo più irregolari (eterogene) permettono gruppi più grandi. Un elevatissimo tasso di mortalità conduce a gruppi più piccoli e una proporzione più piccola di femmine sterili, probabilmente insieme a territori più grandi. Un tasso di mortalità intermedio può risultare insufficiente per diminuire sostanzialmente la grandezza d'un gruppo, me tuttavia può disturbare la stabilità sociale fino al punto di diminuire la proporzione di femmine sterili e perciò aumentare la produttività generale di cuccioli per ogni femmina, e probabilmente territori più piccoli.
Richer food supplies lead to smaller territories and more patchy (heterogeneous) food supplies permit larger groups. A very high death rate leads to smaller groups and a smaller proportion of barren vixens, probably together with larger territories. An intermediate death rate may be insufficient to reduce group size substantially, but nonetheless may disrupt social stability sufficiently to diminish the proportion of barren vixens and thereby increase the overall productivity of cubs per female, and probably smaller territories. (p. 210)
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Mangascià nel 1894

Mangascià Giovanni (1868 – 1907), militare etiope.

Citazioni su Mangascià Giovanni

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  • Era bello Mangascià, di una eleganza un po' femminile che non lo abbandonava neppure quando indossava lo sciamma di guerra, la criniera di leone e in battaglia impugnava la Remington finemente damascato. Anche se si comportava con l'aspra maestà di re, si intuiva subito che quell'energia era finta, mancava di una vera forza interiore. Il ras recitava il ruolo di principe battagliero e irriducibile, ma dentro era fiacco e floscio. (Domenico Quirico)
  • Era figlio di negus e non avrebbe mai dimenticato che il trono doveva toccare a lui. Sapeva che nella sua corte c'era un partito di irriducibili che lo istigava a battersi fino alla morte per riottenere il trono, che mormorava contro la vergognosa servitù nei confronti degli scioani, popolo debole, imbelle, che si era sempre prosternato quando passavano i tigrini. (Domenico Quirico)