Silenzio amministrativo
Il silenzio amministrativo è un istituto giuridico italiano previsto nell'operato della pubblica amministrazione italiana. Può avere diverso significato. Una disciplina generale è contenuta nella legge 7 agosto 1990, n. 241.
Descrizione
[modifica | modifica wikitesto]Con essa si intende quindi un comportamento inerte, mantenuto in tutti quei casi nei quali (al contrario) la legge prescrive di compiere una certa attività. Questo comportamento, che di per sé è totalmente "neutro" (cioè non ha valore né negativo né positivo), è in antitesi con il sistema di diritto amministrativo italiano, che si caratterizza per essere centrato sull'atto amministrativo: per costituire, modificare o estinguere i rapporti di diritto amministrativo, occorre un atto dell'autorità amministrativa, ed anzi deve trattarsi di un atto esplicito, formale e tipico.
Un comportamento inerte è evidentemente inidoneo a questo scopo, salvo i casi in cui la legge ricolleghi espressamente al fatto del "silenzio" dell'amministrazione su un'istanza dei privati, il significato legale di atto "implicito" di assenso (silenzio assenso), o rigetto (silenzio diniego), della domanda.
Casistica
[modifica | modifica wikitesto]L'istituto può riferirsi a:
- alla mancata emanazione di un atto da parte della pubblica amministrazione italiana;
- alla mancata decisione su un ricorso gerarchico;
- al mancato esercizio del potere di sorveglianza;
- al rifiuto tacito di provvedere.
Particolari fattispecie sono:
- silenzio-rigetto: che si configura nel caso in cui la pubblica amministrazione italiana non si pronunci entro il termine perentorio di 90 giorni a seguito di un ricorso gerarchico.
- silenzio qualificato: che si ha quando la mancata risposta da parte dell’amministrazione non è dovuta all’inerzia degli organi competenti e può assumere valore, a seconda dei casi, di diniego o di risposta .
Rapporto con l'omissione di atti d'ufficio
[modifica | modifica wikitesto]Nel linguaggio giuridico, il «silenzio» dell'amministrazione indica il medesimo fenomeno che nel diritto penale è definito come «omissione di atti d'ufficio»: quest'ultimo illecito si configura nel caso di mancata emissione di un atto dovuto, ma ha diverse conseguenze sanzionatorie rispetto all'illecito amministrativo.
La Suprema Corte di Cassazione ha più volte ribadito, da ultimo con Sentenza n. 46758 del 03.12.2012[1], che la permanenza del silenzio sul compimento di atti gravati da procedimento amministrativo (restando dunque escluse le mere richieste generiche o le sollecitazioni), laddove seguito da idonea diffida ad adempiere prodotta dal cittadino interessato all'eventuale provvedimento, integra la fattispecie di cui all'art. 328 c.p., in quanto per tale reato è configurabile il solo dolo generico, ovvero la semplice conoscenza, da parte del pubblico ufficiale delegato, dell'assegnazione a sé del procedimento in questione.
Del fatto-reato deve essere informata l'A.G. con denunzia (in quanto perseguibile d'ufficio) e, espletata la fase delle indagini preliminari (in cui di rado il pubblico ufficiale può rischiare la sospensione dalla carica o dalla posizione ricoperta) l'imputato potrà essere condannato fino ad un anno di reclusione (o fino a due anni, nel caso più grave di "rifiuto di atti d'ufficio") e, come pena accessoria, l'interdizione annuale dai pubblici uffici.
Note
[modifica | modifica wikitesto]Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]- Portaluri, sul Silenzio assenso, Roma 2008 (PDF) [collegamento interrotto], su giustizia-amministrativa.it.
- Corradino, «termini, efficacia dei provvedimenti e silenzio», Roma 2005, su giustizia-amministrativa.it. URL consultato il 30 maggio 2009 (archiviato dall'url originale il 14 giugno 2009).
- Gualtieri, termini procedimentali e silenzio, su scienzepolitiche.uniroma3.it.